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SPAZIO CRITICO
IN COLLABORAZIONE COL GRUPPO LIGURE CRITICI CINEMATOGRAFICI
"Take Shelter", di Jeff Nichols
I LaForche sembrano una normalissima famiglia della provincia americana (siamo in Ohio) impegnata come milioni di altre a inventarsi una vita accettabile nel pieno dell'imperversare della crisi economica che sta attanagliando il mondo.
(di Furio Fossati)
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Sezione: Recensioni di Aldo Viganò
Il buio nell’anima
Posto tra parentesi l’amore per la sua Irlanda (La moglie del soldato, Michael Collins), Neil Jordan torna negli Stati Uniti per ostentare ancora una volta quel virtuosismo tecnico e narrativo già evidenziato sin dai tempi di Non siamo angeli e di Intervista con il vampiro. Eccolo quindi alle prese con un thriller classico, dall’andamento un po’ troppo risaputo, costruito sul tema della vendetta.
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Planet Terror
Dopo Grindhouse di Tarantino ecco anche Planet Terror di Rodriguez, seconda pala del dittico – diviso dall’insuccesso di critica e pubblico negli Usa – che i due registi hanno voluto elevare sull’altare di quel cinema-cinema che non ha paura di sconfinare nel “trash” attraverso il suo culto esclusivo per le variazioni stilistiche sulle strutture narrative del “genere” e che ha scelto il riferimento ai B-Movie – una volta molto popolari, oggi campo di adozione dei cinèphiles più duri e intransigenti – come proprio universo sia estetico, sia ideologico.
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4 mesi, 3 settimane e 2 giorni
La discussa Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes ha portato all’attenzione del pubblico internazionale questo austero film del rumeno Cristian Mungiu, che con realistica meticolosità racconta il tragico viaggio di due ragazze nel mondo dell’aborto clandestino, ai tempi della dittatura di Ceausescu. Otilia e Gabita sono due studentesse che abitano in uno squallido dormitorio dell’Ateneo.
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Sicko
Michael Moore insiste nel suo cinema dichiaratamente polemico, un po’ narcisista e sanamente fazioso, sempre ben montato e attraversato da improvvisi guizzi umoristici. Dopo la disumanità della grande industria americana (Roger & Me), la nefasta ossessione dei suoi compatrioti per le armi da fuoco (Bowling a Columbine), le ambiguità del potere in occasione della tragedia delle “Twin Towers” (Fahrenheit 9/11), eccolo affrontare ora la disastrosa situazione del sistema sanitario nazionale, caratterizzato dall’arroganza delle società di assicurazione e dalla tragica solitudine degli ammalati che non sono in grado di pagarne gli ingentissimi premi.
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Gli amori di Astrea e Celadon
Quando si parla dei film di Eric Rohmer, abbondano espressioni del tipo “cinema da camera”, “anacronismo d’artista”, “piccolo gioiello” e, da un po’ di tempo in qua, anche “irriducibile vegliardo”. Il fatto è che l’ex redattore capo dei “Cahiers du Cinèma” è sempre rimasto fedele a un’idea di cinema “puro” che affonda le proprie radici nella tradizione rosselliniana (la semplicità: un inquadratura trova giustificazione in se stessa e la si cambia solo quando è “necessario”), coniugata con quella hitchcockiana (la forma crea il contenuto) e sintetizzata intorno a una prospettiva estetica rigorosamente personale (la realtà dei personaggi si definisce interamente dentro alle coordinate spazio-temporali del linguaggio delle immagini).
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La masseria delle allodole
Varcata ormai da tempo la soglia dei settant’anni, i fratelli Taviani restano fedeli a una loro idea di cinema insieme letterario e sentimentale, brechtiano ed emotivamente coinvolgente, comunque sempre impegnato ad affrontare argomenti forti e non rassegnato ad appiattirsi sull’imperante minimalismo quotidiano.
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Centochiodi
C’è sempre qualcosa di anti-moderno nel cinema di Ermanno Olmi. Anche quando, come accade in questo Centochiodi, affronta temi di grande attualità (il rapporto tra fede e verità o tra religione e dottrina, tra vita ed erudizione), infatti, egli lo fa sempre con ritmi, tempi e angolazione di sguardo che nulla hanno a che fare con i modelli estetici del momento o con la primaria prospettiva della ricerca linguistica.
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Intrigo a Berlino
Il regista di Sesso, bugie e videotape rende omaggio al cinema in bianco e nero: cosa che oggi regala automaticamente a ogni film un’aureola autoriale, quasi allo stesso modo che i buchi dei tarli garantiscono a un mobile l’apparenza dell’antichità. E proprio un operazione “d’antan” sembra essere stata al centro dell’interesse di Steven Soderbergh nel mettere in scena questo The Good German, di cui firma anche sotto duplice pseudonimo la fotografia e il montaggio.
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