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SPAZIO CRITICO
IN COLLABORAZIONE COL GRUPPO LIGURE CRITICI CINEMATOGRAFICI
"Take Shelter", di Jeff Nichols
I LaForche sembrano una normalissima famiglia della provincia americana (siamo in Ohio) impegnata come milioni di altre a inventarsi una vita accettabile nel pieno dell'imperversare della crisi economica che sta attanagliando il mondo.
(di Furio Fossati)
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Sezione: Recensioni di Aldo Viganò
Two Lovers
Con solo quattro lungometraggi sinora realizzati, il quarantenne James Gray (New York, 1969) si è rivelato come uno dei registi più personali e interessanti della nuova generazione statunitense. Scoperto a ventiquattro anni alla Mostra di Venezia, dove il suo Little Odessa vinse a sorpresa il Leone d’argento e garantì a Vanessa Redgrave il premio come migliore attrice non protagonista, ma precipitato subito nell’inferno del fallimento commerciale con il pur ottimo The Yards, Gray è risorto lo scorso anno con I padroni della notte e si conferma oggi regista di talento con un “melò”, Two Lovers, dal forte impatto visivo e dalla splendida sintesi drammatica, in cui torna a coniugare i temi a lui sempre particolarmente cari: vale a dire quelli della famiglia, intesa sia come legame tra consanguinei, sia come appartenenza a una ben precisa comunità etnica (qui quella ebraica), che funge insieme da collante esistenziale e da prigione dalla quale i suoi protagonisti tentano invano di sfuggire.
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Gran Torino
Dopo il bellissimo Changelling ecco, solo pochi mesi dopo, lo straordinario Gran Torino. Giunto ormai alla soglia degli ottantant’anni il sempre più sorprendente Clint Eastwood si conferma l’ultimo dei grandi classici del cinema hollywoodiano, avendo raggiunto nel trascorrere degli anni una meravigliosa capacità di sintesi tra la libertà creativa dell’autore e la forza espressiva di una gloriosa tradizione cinematografica che affonda le proprie radici negli archetipi di modelli narrativi che pongono sempre l’essere umano, con le sue ansie e le sue contraddizioni, al centro del racconto.
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Rachel sta per sposarsi
Una ragazza borghese (Anne Hathaway) torna a casa per il matrimonio della sorella (Rosemarie Dewitt) e, come si conviene ai film famigliari modello Sundance Festival, questo spunto narrativo diventa occasione per una galleria di ritratti psicologici, di piccoli e grandi conflitti mal nascosti dal tempo, di tensioni interpersonali spinte sino al limite della deflagrazione, che portano con sé una lunga storia di crisi personali, conflitti famigliari e segrete tragedie.
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Valzer con Bashir
Il tema centrale di questo cartone animato per adulti, che inizia con un incubo da cinema dell’orrore e finisce nell’inferno della realtà documentaria, è il senso di colpa di un intellettuale israeliano (l’autore stesso del film) che si manifesta in forma di rimozione della memoria degli avvenimenti dei quali era stato diretto testimone nel 1882, quando giovanissimo (“ancora non mi facevo la barba”) prese parte alla prima fase della guerra del Libano.
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Appaloosa
E’ curioso constatare come il cinema western, in questi ultimi decenni d’agonia, abbia ritrovato un po’ di respiro solo grazie alla testardaggine di alcuni ormai maturi attori che, fattisi registi, hanno visto nella mitologia della frontiera la via migliore per esprimere una loro etica visione del mondo, oltre che per valorizzare l’understatment di una recitazione che affonda le proprie radici nella grande tradizione del cinema hollywoodiano.
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Revolutionary Road
Il sogno e la realtà. E’ all’incrocio di queste coordinate che il britannico Sam Mendes (American Beauty, Era mio padre) costruisce, con la complicità dell’omonimo romanzo di Richard Yates, la sua nuova rivisitazione della provincia statunitense, spostando questa volta l’azione nei pastellati anni Cinquanta. Pur privato del distacco narrativo della voce fuori campo, il tono resta quello di America Beauty: un misto, cioè, di estraniata ironia e di partecipazione emotiva, che spinge il film sul terreno impervio che sta tra il melodramma sociale e la satira di costume.
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Changeling
Un film semplice, lineare, profondo. Perfetto come sanno esserlo solo i classici. Se è sconfortante ricordare come la giuria di Cannes abbia ignorato l’autoriale rigore di Changeling, preferendogli il vuoto impegno contenutistico di La classe, conforta però constatare che il pubblico (almeno quello cittadino) non si è fatto sfuggire l’occasione di trascorrere almeno due ore in una sala buia in compagnia con il vero cinema. E uscirne finalmente appagato.
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Si può fare
A differenza di Matti da slegare, con il quale Silvano Agosti e Marco Bellocchio portarono sullo schermo, tre anni prima dell’approvazione della legge che porta il suo nome, la documentazione a favore delle teorie sostenute dalla psichiatra Franco Basaglia circa il reinserimento nella società dei malati di mente, il nuovo film di Giulio Manfredonia, che fa seguito a un pugno di opere di livello inferiore (Tanti auguri, Se fossi in te, È già ieri), mette in scena in forma di fiction – tra realtà e utopia – le conseguenze pratiche dell’applicazione di quella legge che tra molte polemiche svuotò a partire dal 1978 i manicomi e aprì l’enorme problema sociale riguardante l’attivazione di adeguate strutture alternative.
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