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SPAZIO CRITICO
IN COLLABORAZIONE COL GRUPPO LIGURE CRITICI CINEMATOGRAFICI
"Take Shelter", di Jeff Nichols
I LaForche sembrano una normalissima famiglia della provincia americana (siamo in Ohio) impegnata come milioni di altre a inventarsi una vita accettabile nel pieno dell'imperversare della crisi economica che sta attanagliando il mondo.
(di Furio Fossati)
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Sezione: Recensioni
Monsieur Ibrahin e i fiori del Corano
Più che il regista François Depeyron, onesto cinquantenne del cinema francese con all’attivo una dozzina di film che difficilmente hanno varcato le Alpi, quelli che contano qui sono il soggettista-sceneggiatore Eric-Emmanuel Schmitt e il protagonista Omar Sharif. È infatti per amore del personaggio offertogli da Schmitt che Sharif ha deciso di ritornare sul grande schermo dopo molti anni d’assenza, confermandosi attore dalle limitate qualità, ma dalla sicura presenza cinematografica; ed è per merito soprattutto di Schmitt che il film garantisce un immediato “feeling” emotivo e culturale con un pubblico “perbene” (qualcuno preferisce dire “politicaly correct”).
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Femme fatale
Brian De Palma ha scelto di girare in Europa – stella polare dei suoi primi amori cinematografici e luogo di residenza dei suoi fans più convinti – il film più estremo e personale di una lunga carriera sovente caratterizzata più dal virtuosismo che dall’ispirazione.
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Debito di sangue
Chi ha detto che il cinema moderno deve essere caratterizzato dalla frantumazione dell’azione nel frenetico intrecciarsi delle inquadrature e delle angolazioni? Debito di sangue è la dimostrazione che ancora oggi si può fare un film di forte presa spettacolare articolando una sequenza secondo riprese ad altezza d’uomo, funzionali movimenti della cinepresa e in immagini che trascorrono le une nelle altre secondo i principi logico-razionali del montaggio “invisibile”.
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Il signore degli anelli: la compagnia dell’anello
Più di venti anni fa, ci aveva già provato Ralph Bakshi con un film che mescolava il cartone animato con le riprese dal vivo, ma le ambizioni di Peter Jackson sono molto più grandi: portare sul grande schermo l’intera saga d’ambientazione medievale ideata da Tolkien, mettendo contemporaneamente in cantiere tre kolossal realizzati ai margini delle potenti majors hollywoodiane e destinati a uscire uno all’anno da qui al 2003.
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Brucio nel vento
Silvio Soldini, il meno nostrano dei registi italiani, non ama ripetersi e s’innamora soprattutto delle storie e dei volti dei personaggi preposti a viverle. Dopo la trilogia delle “occasioni offerte dal destino” (L’aria serena, Un’anima divisa in due, Le acrobate) e il successo in parte inaspettato di una commedia stranamente solare (Pane e tulipani), Soldini ha girato con Brucio nel vento forse il suo film più complesso ed “estremo”, che guarda al melodramma, ma vi coniuga all’interno temi squisitamente autoriali che attraversano tutta la sua filmografia e permeano di sé i suoi protagonisti: l’insoddisfazione personale per ciò che la vita offre, la forte attrazione verso la possibilità di un’esistenza diversa, l’intervento quasi sempre risolutore del caso, che non si presenta tanto sotto la forma trascendente del destino (Soldini non è Kieslowski), quanto sotto quella di un’occasione che i protagonisti non possono e non vogliono mancare.
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La nobildonna e il duca
Come tutte le eroine di Rohmer, Grace Dalrymple Elliott ha una precisa visione del mondo e vuole tenacemente preservarla. Con le parole e con i fatti. Pur nei limiti di quanto il suo sesso e l’ambiente circostante le permettono. Di fronte a questa sua profonda, assoluta sincerità, permeata da autentica sofferenza e passione umana, il fatto che il mondo di cui Grace non accetta il disfacimento sia quello dell’ancien régime e che, pertanto, lei stessa possa con piena legittimità essere definita una reazionaria o una nostalgica, in fin dei conti poco importa.
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