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SPAZIO CRITICO
IN COLLABORAZIONE COL GRUPPO LIGURE CRITICI CINEMATOGRAFICI
"Take Shelter", di Jeff Nichols
I LaForche sembrano una normalissima famiglia della provincia americana (siamo in Ohio) impegnata come milioni di altre a inventarsi una vita accettabile nel pieno dell'imperversare della crisi economica che sta attanagliando il mondo.
(di Furio Fossati)
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Sezione: Recensioni
Appaloosa
E’ curioso constatare come il cinema western, in questi ultimi decenni d’agonia, abbia ritrovato un po’ di respiro solo grazie alla testardaggine di alcuni ormai maturi attori che, fattisi registi, hanno visto nella mitologia della frontiera la via migliore per esprimere una loro etica visione del mondo, oltre che per valorizzare l’understatment di una recitazione che affonda le proprie radici nella grande tradizione del cinema hollywoodiano.
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Revolutionary Road
Il sogno e la realtà. E’ all’incrocio di queste coordinate che il britannico Sam Mendes (American Beauty, Era mio padre) costruisce, con la complicità dell’omonimo romanzo di Richard Yates, la sua nuova rivisitazione della provincia statunitense, spostando questa volta l’azione nei pastellati anni Cinquanta. Pur privato del distacco narrativo della voce fuori campo, il tono resta quello di America Beauty: un misto, cioè, di estraniata ironia e di partecipazione emotiva, che spinge il film sul terreno impervio che sta tra il melodramma sociale e la satira di costume.
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Changeling
Un film semplice, lineare, profondo. Perfetto come sanno esserlo solo i classici. Se è sconfortante ricordare come la giuria di Cannes abbia ignorato l’autoriale rigore di Changeling, preferendogli il vuoto impegno contenutistico di La classe, conforta però constatare che il pubblico (almeno quello cittadino) non si è fatto sfuggire l’occasione di trascorrere almeno due ore in una sala buia in compagnia con il vero cinema. E uscirne finalmente appagato.
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Si può fare
A differenza di Matti da slegare, con il quale Silvano Agosti e Marco Bellocchio portarono sullo schermo, tre anni prima dell’approvazione della legge che porta il suo nome, la documentazione a favore delle teorie sostenute dalla psichiatra Franco Basaglia circa il reinserimento nella società dei malati di mente, il nuovo film di Giulio Manfredonia, che fa seguito a un pugno di opere di livello inferiore (Tanti auguri, Se fossi in te, È già ieri), mette in scena in forma di fiction – tra realtà e utopia – le conseguenze pratiche dell’applicazione di quella legge che tra molte polemiche svuotò a partire dal 1978 i manicomi e aprì l’enorme problema sociale riguardante l’attivazione di adeguate strutture alternative.
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Mamma Mia!
Si prende una dozzina di canzoni degli Abba, gruppo musicale pop che, dalla natia Svezia, ha conquistato il mondo, si dice, con 370 milioni di dischi venduti. Si cuciono insieme parole e note di questi orecchiabili motivi in una storia che chiama in causa due generazioni femminili, unite dalla comune tendenza a stabilire un legame di complicità con le proprie coetanee, considerando in fin dei conti i maschi solo un piacevole giocattolo o un oggetto di attrazione.
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Miracolo a Sant’Anna
Cosa c’entra un afro-americano di Atlanta con la Resistenza italiana? Che ha a che fare un regista di opere essenzialmente urbane e declinate in primo piano con le autunnali colline toscane e con la dimensione epica implicita nella messa in scena di un film di guerra che dura 160 minuti? Che ruolo occupa nella filmografia di Spike Lee il Miracolo a Sant’Anna? È chiaro che ciò che maggiormente l’ha affascinato del romanzo di James McBride, è l’occasione di ribadire ancora una volta il ruolo fondamentale degli uomini di colore nella storia degli Stati Uniti, partendo dal racconto delle tragiche esperienze di quattro soldati della 92° divisione Buffalo (due sergenti, un radiotelegrafista e un soldato semplice con la mente disturbata in una possente presenza fisica) che nel corso della campagna d’Italia restano tagliati fuori dalle loro linee e si rifugiano in un paesino dell’Appennino toscano, dove vengono accolti con sentimenti controversi dalla popolazione locale.
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Burn After Reading
Tutto il cinema dei fratelli Coen può essere letto come una serie di variazioni sul tema della stupidità umana: ora (da Blood Simple a Non è un paese per vecchi) coniugato nelle strutture narrative del cinema di genere, e ora (da Arizona Junior a Prima ti sposo, poi ti rovino) secondo i toni di una comicità spinta ai limiti del farsesco. E in questo senso, Burn After Reading (titolo splendidamente ambiguo, alludendo sia ai messaggi che gli agenti segreti hanno l’obbligo di distruggere dopo la lettura, sia all’ammiccante apparenza usa-e-getta con cui il film maschera la propria capacità di andare sino in fondo alle cose) è il felice punto d’arrivo della loro filmografia.
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X – FILES 2: voglio crederci
Il serial televisivo di successo (duecentodue episodi in nove stagioni) si è concluso sei anni fa, lasciando dietro di sé anche un film (Fight the Future, 1998), ma alla Fox hanno deciso di scommettere ancora sul revival cinematografico di X – Files, facendo le cose in grande e puntando sul recupero delle sue matrici figurative originali: ricostituire la coppia composta da David Duchovny e Gillian Anderson e farla agire nel paesaggio innevato di Vancouver, da cui, nel mezzo del cammino di sua vita, il serial era stato spodestato per i più confortevoli studios di Los Angeles.
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