Romanzo criminale

La parabola di tre amici dalla periferia di una grande città ai vertici della criminalità organizzata (come in C’era una volta in America); la cronaca delle imprese della banda della Magliana nell’Italia degli anni Settanta e Ottanta (con il piglio pedagogico-spettacolare dei film di Carlo Lizzani); il melodrammatico intrecciarsi sullo sfondo della Storia di potere politico e malavita (come nel Padrino – parte III).

Appoggiandosi sull’omonimo romanzo di De Cataldo, questa volta Michele Placido punta decisamente in alto e, pur con i limiti di un ricorrente didascalismo e di uno sguardo cinematografico ancora troppo sovente prigioniero di modelli linguistici televisivi, ne sortisce il migliore film della sua carriera di regista e certo tra i più vivi tra quanti è venuto a proporci nelle ultime stagioni il sempre fragile cinema italiano.

Dopo un prologo dedicato a descrivere la nascita di un’amicizia infantile in un quartiere periferico romano e i cui fantasmi ritorneranno sovente in flash-back, Romanzo criminale si struttura in tre atti intitolati rispettivamente ai tre amici sopravvissuti alle loro prime imprese criminali e agli anni del riformatorio. Intorno a Il Libanese, si forma la banda che, con i soldi ottenuti da un tragico sequestro di persona, muove decisa alla conquista di Roma, del suo mercato della droga, lasciando dietro di sé una spietata scia di sangue, ma venendo anche più o meno inconsapevolmente utilizzata dai servizi deviati dello Stato sullo sfondo dei grandi misteri nazionali di quegli anni (dal sequestro di Moro alla strage di Bologna, dalla Loggia P2 ai legami con la mafia, sino all’attentato al Papa).

In questa lunga prima parte, Michele Placido confeziona un film dalla fotografia sporca e dai nervosi raccordi di montaggio cari al cinema-cronaca degli anni Settanta, evidenziando però una pregevole cura nel guidare la recitazione degli attori verso modalità che sanno guardare alla concretezza comportamentale del cinema di genere. Tanto che, nella seconda parte, Romanzo criminale può senza contraddizione imboccare la via del melodramma “noir”, concentrando lo sguardo sul personaggio del Freddo, cui Kim Rossi Stuart offre un’interpretazione che ricorda il suo Amleto teatrale: facendone un eroe languido e dolente, tormentato dal dubbio esistenziale ma sicuro nei propri valori morali.

E sul suo volto sofferente, il film si costruisce in sequenze dal respiro più articolato, meritevolmente capaci di guardare alla prospettiva di un cinema d’ampio respiro tragico, anche se troppo sovente condannate a rivelare un notevole scarto tra la nobiltà delle intenzioni e la limitatezza dei risultati. Ma Romanzo criminale, come del resto ben dimostra anche la sua terza parte (intitolata al Dandi e cadenzata sul ritmo del sempre più fitto intrecciarsi tra politica e criminalità), va preso per quello che è: l’orgogliosa rivendicazione di un cinema che vale ancora la pena di fare, più che l’esito di un bel film esteticamente compiuto. Comunque un film da salutare per i suoi meriti (che non sono pochi), piuttosto che condannare per i limiti narrativi e autoriali, o per la povertà di certi personaggi, quale quello del commissario interpretato da Stefano Accorsi.

Romanzo criminale
(Italia, 2005)
Regia: Michele Placido
Sceneggiatura: Stefano Rulli, Sandro Petraglia, Giancarlo De Cataldo e Michele Placido, dal romanzo omonimo di Giancarlo De Cataldo
Fotografia: Luca Bigazzi
Musica: Paolo Buonvino
Scenografia: Paola Comencini
Costumi: Nicoletta Taranta
Montaggio: Esmeralda Calabria
Interpreti: Kim Rossi Stuart (Freddo), Pierfrancesco Favino (Libanese), Claudio Santamaria (Dandi), Stefano Accorsi (comm. Scialoja), Anna Mouglalis (Patrizia), Jasmine Trinca (Roberta), Riccardo Scamarcio (Nero), Massimo Popolizio (Terribile), Toni Bertorelli (La Voce), Roberto Infascelli (Gigio), Franco Interlenghi (Barone Rosellini), Gianmarco Tognazzi (Carenza), Michele Placido (padre del Freddo)
Distribuzione: Warner Bros. Italia
Durata: 150 minuti

(di Aldo Viganò)

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