Lasciato da parte l’alquanto stucchevole elogio della mediocrità che ha caratterizzato i suoi ultimi film (Un cuore altrove, Ma quando arrivano le ragazze?), Pupi Avati torna a frequentare con La seconda notte di nozze il clima di dolce e dimessa follia che da sempre alimenta i suoi film migliori, e trova in Antonio Albanese l’immagine di quello che sarebbe potuto diventare Nick Novecento se fosse sopravvissuto trent’anni alla sua morte.
Costruito sullo sfondo un po’ “fané” di una rievocazione storica alquanto posticcia pur nelle sue auto d’epoca e nei suoi abiti appena usciti dalla sartoria, l’ultimo film di Avati ha l’andamento dichiarato di una favola antica, in cui tutti i personaggi sembrano uscire da un mondo volutamente senza profondità. C’è lo scemo del villaggio (Antonio Albanese, appunto), reso tale dalla guerra, che alterna l’attività di fabbricatore di artigianali confetti per matrimoni con la pratica, assunta dopo di aver visto saltare in aria su una mina una bambina, di andare in giro per la campagna pugliese a disinescare le cariche esplosive lasciate sul territorio dal conflitto: in ciò seguito a debita distanza dai bambini e dai vecchi morbosamente attratti dal rumoroso fascino di una disgrazia sempre possibile.
Ci sono le sue due vecchie zie (Marisa Merlini e Angela Luce), che del danaro ereditato dallo scemo vivono e che temono ora il ritorno a casa della butirrosa cognata (Katia Ricciarelli), della quale Albanese è sempre stato innamorato. E poi c’è il figlio di costei (Neri Marcoré) avvezzo a vivere di piccoli furti e ora disposto a rubare una macchina e viaggiare da Bologna alla provincia di Bari pur di gettare la mamma nelle braccia del suo ricco e antico spasimante. Figurine ritagliate in modo alquanto superficiale, ma dotata ciascuna di un suo piccolo elemento di follia: la gentile ossessione erotica di Albanese; la fiducia nelle pratiche esorcistiche delle due zie; la placida e indolente disponibilità al sesso della Ricciarelli che ora però si nega al nuovo fidanzato; la venerazione di Macoré per un poco probabile divo del cinema che casualmente ritrova in un albergo barese disposto a imbarcarlo in un nuovo film, purché gli procuri i soldi per realizzarlo (cosa che lui provvede subito, seducendo e derubando la figlia del notaio preso cui ha trovato momentaneamente lavoro).
Ed è proprio questa sussurrata follia che, espandendosi per quasi tutto il film, ne alimenta i momenti migliori, concorrendo a tener desta l’attenzione per un racconto che si ha l’impressione avrebbe avuto tutto da guadagnare se Avati avesse dato più credito all’eccentricità dell’assunto e dei personaggi, invece che perdersi nelle descrizione di tante piccole divagazioni ora grottesche e ora naturalistiche. Ma la coerenza stilistica, si sa, non è mai stata una caratteristica portante dei film del regista bolognese, autore di un cinema che va comunque gustato proprio per quello che è: svagato e un po’ indolente, sempre arricchito da un ottima scelta degli spartiti musicali, capace di creare belle situazioni ma poco interessato a svilupparle sino in fondo, tendenzialmente portato a sottovalutare il riore del linguaggio cinematografico, comunque ottimo direttore d’attori soprattutto (come in questo caso) quando si tratta di guidarli verso l’indeterminato.
La seconda notte di nozze
(Italia, 2005)
Regia: Tim Burton
Sceneggiatura: John August, dal romanzo omonimo di Roald Dahl
Fotografia: Philippe Rousselot
Musica: Danny Elfman
cenografia: Alex McDowell
Costumi: Gabriella Pascucci
Montaggio: Chris Labenzon.
Interpreti: Freddy Highmore (Charlie Bucket), Johnny Depp (Willy Wonka), Helena Bonham Carter (signora Bucket), James Fox, Jordan Fry (Mike Teavee), David Kelly (nonno Joe), Christopher Lee, Missi Pyle (signora Beauregard), Annasophia Robb (Violet Beauregard), Noah Taylor, Philip Wiegratz (Augustus Gloop), Julia Winter (Veruca Salt)
Distribuzione: Warner Bros. Italia
Durata: 115 minuti
(di Aldo Viganò)