Munich

Dopo il silenzio di Francis Ford Coppola e di Michael Cimino, è ora di ribadire ad alta voce che Steven Spielberg è oggi il più grande regista hollywoodiano. Non solo il cineasta più potente, ma proprio il regista-autore nel senso più compiuto e più nobile del termine, capace di costruire sul grande schermo un universo originale e coerente attraverso un impressionante susseguirsi di opere insieme personali e universali.

E, dopo aver visto Munich solo a pochi mesi di distanza da The Terminal, il giudizio non può che uscirne rafforzato, così come è proprio la compresenza sugli schermi di due film pur così diversi, come questo e A History of Violence (vedi qui accanto), che rallegra i “cinephiles” e getta un raggio di speranza sul futuro del cinema. Sempre sospeso tra cronaca, politica e storia, il soggetto di Munich sembrava essere di quelli che fanno gola a registi di superficie tipo Oliver Stone. Ma che ne fa Spielberg? Con l’aiuto del drammaturgo Tony Kushner e di Eric Roth, il cinquantasettenne regista di Cincinnati ne sortisce una grande tragedia che investe insieme il pubblico e il privato, l’esistenza del protagonista (e di tutti coloro che lo circondano) di una vicenda che affonda le proprie radici nella storia e il destino di un popolo (e dell’umanità tutta) quando non riesce trovare altra via di uscita dal Male che non sia quella dell’accettazione della sua ineluttabilità.

E’ sul filo di questa riflessione etica che la storia dell’attacco di Settembre Nero al villaggio olimpico di Monaco 1972 e la conseguente decisione del governo israeliano di far assassinare nel mondo undici sospettati di essere i mandanti di quella che divenne una strage, nel film di Spielberg assume progressivamente un respiro degno di una tragedia greca. Munich è un film complesso e niente affatto consolatorio. Un film che coinvolge lo spettatore in un crescendo narrativo che diventa una progressiva immersione nelle tenebre evocate dall’incrociarsi di un duplice (sia arabo, sia ebraico) e solo apparentemente opposto peccato originale: la rivendicazione di una Terra ad ogni costo.

Una tragedia, appunto, nei confronti della quale l’ebreo Spielberg rifiuta di schierarsi ideologicamente, ma non per questo rinuncia alla propria responsabilità di artista. Ecco allora che Munich ha un impianto figurativo molto articolato, passando nello sviluppo dell’azione dalla pur alta professionalità dell’inizio a Monaco e in Israele a immagini e a tagli narrativi sempre più contrastati e problematici, via via che l’arte di uccidere dimette quella comune e umana incertezza iniziale, per farsi alta professionalità.

Ed ecco però anche – sottolinea senza didascalismo alcuno Steven Spielberg – che insieme alla conquista di questa compiuta efficienza operativa cresce nell’uomo la constatazione della propria fragilità: quella brumosa paura che il potente “Papa” (un magnifico Michel Lonsdale) cerca invano di esorcizzare nascondendosi in una famiglia patriarcale e alla quale però Eric Bana, perduti uno dopo l’altro i suoi compagni di vendetta, non può fare a meno di arrendersi.

Perdendo così, infine, anche la propria identità (e la propria Terra) nell’esilio in una New York, cui la cinepresa nega emblematicamente ogni profondità prospettica.

Munich
(USA, 2005)
regia: Stephen Spielberg
Sceneggiatura: Tony Kushner e Eric Roth, dal libro di George Jonas
Fotografia: Janusz Kaminski
Musica: John Williams
Scenografia: Rick Carter
Costumi: Joanna Johnston
Montaggio: Michael Kahn
Interpreti: Eric Bana (Avner), Daniel Craig (Steve), Ciaran Hinds (Carl), Mathieu Kassovitz (Robert), Hans Zischler (Hans), Ayelet Zoren (Daphna), Geoffrey Rush (Ephraim), Gila Almagor (mamma di Avner), Michael Lonsdale (“Papa”), Mathieu Amalric (Louis), Valeria Bruni Tedeschi (Sylvie), Lynn Cohen (Golda Meir)
Distribuzione: UIP
Durata: 164 minuti

(di Aldo Viganò)

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