A History of Violence

Con questa “storia di violenza”, il trasgressivo e sovente sperimentale David Cronenberg si confronta con i temi e le modalità espressive della classicità. E ne esce vincente: consegnando al grande schermo un film forte, per molti versi sorprendente, sicuramente molto personale.

Eppure le premesse non erano delle migliori: l’ennesimo soggetto tratto da una fortunata serie di fumetti induceva a pensare che il regista canadese ne avrebbe tratto soprattutto un esercizio di stile: raffinato certo, come il suo solito, ma anche condannato a una certa autoreferenzialità come era accaduto nei pur pregevoli Spider o eXistenZ. Invece, sin dalla prima sequenza, A History of Violence getta lo spettatore in un mondo nel quale è costretto a rispecchiarsi, in una storia che progressivamente si apre alla possibilità di essere letta come una metafora del mondo contemporaneo, tra personaggi fatti di carne e ossa, di fisicità e di sentimenti, che insieme ci inquietano e ci emozionano. Impossibile pensare che quelle immagini e quegli improvvisi scarti drammaturgici rinviino a una moda narrativa mediata dai fumetti.

Della “graphic novel” di John Wagner e Vince Locke resta nel film solo la trama: un uomo tranquillo, sposato con due figli, uccide due sbandati che hanno fatto irruzione nel suo bar di provincia, e diventa un eroe mediatico con la conseguenza di riportare nel presente i fantasmi del suo rimosso passato gangsteristico. Soggetto ingegnoso, indubbiamente, ma anche con in sé il segno del déjà vu e la prospettiva di essere sviluppato come una semplice storia di vendetta o peggio ancora come un elogio della sana vita di provincia contrapposta alla peccaminosa esistenza di città.

La straordinaria capacità di Cronenberg sta innanzitutto nel non aver affatto negato tutto questo, ma di averne consapevolmente assecondato – sia in fase di sceneggiatura, sia sul piano della regia e della recitazione degli attori – proprio la struttura drammaturgica di “genere”: portandola, però, sino alle estreme conseguenze e aprendo così al suo film una dimensione archetipica, che ne fa una riflessione profonda e inquietante sull’umanità, sul mondo occidentale e sulla Storia. Un film d’autore, certo, che ben si collega a tutta la sua opera precedente, costruita in modo ossessivo intorno alla riflessione sui temi dell’identità e della violenza. Ma la novità sta questa volta nella compostezza dello sguardo: nella sua classicità, appunto.

E’ emozionante il modo in cui Cronenberg conduce l’ottimo Viggo Mortensen – e all’unisono con lui lo spettatore – a scoprire, in un inestricabile groviglio di paura e di piacere, la violenza che è in lui. E’ affascinante il tragitto “infernale” che conduce sulla sua strada le complesse manifestazioni del Male (i balordi senza meta, il “paziente” Ed Harris, il “fraterno” William Hurt dalla recitazione “underplaying”). E’ sconvolgente l’uso speculare che Cronenberg fa dei due momenti erotico-famigliari con la splendida Maria Bello.

E riappacifica, infine, con il cinema del terzo millennio la capacità di un regista di interrogarsi ancora una volta sulla funzione e la responsabilità dell’artista, senza per questo avvertire il bisogno di cancellare il passato, la tradizione, il consapevole uso del linguaggio cinematografico.

A History of Violence
(USA, 2005)
Regia: David Cronenberg
Sceneggiatura: Josh Olson, dalla “graphic novel”di John Wagner e Vince Locke
Fotografia: Peter Suschitzky
Musica: Howard Shore
Scenografia: Carol Spier
Costumi: Denise Cronenberg
Montaggio: Ronald Sanders
Interpreti: Viggo Mortensen (Tom Stall), Maria Bello (Edie Stall), Ed Harris (Carl Fogarty), William Hurt (Richie Cusack), Ashton Holmes (Jack Stall), Peter Mac Neill (sceriffo Sam Carney), Stephen McHattie (Leland Jones), Greg Bryk (William Orser), Sumela Kay (Judy Danvers), Kyle Schmid (Bobby Jordan), Deborah Drakeford (Charlotte)
Distribuzione: 01
Durata: 96 minuti

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