Con la caduta del muro, sembravano finite anche le spie. La guerra in Iraq le ha rilanciate. In una nuova veste…
Conoscerai la verità e la verità ti renderà libero. Il versetto biblico è inciso all’ingresso del quartiere generale della Cia a Langley (Virginia). E sin dai tempi della Guerra Fredda. Evidentemente per il pur cristiano rinato George W. Bush quel passaggio del sacro testo non deve essere mai assurto a priorità come regola di governo, tanto da risultare anche incompatibile con l’idea di esportare la democrazia più che sulla punta delle baionette sui cannoni dei carri armati.
Così le “spie” sono state usate, come per il Watergate, in maniera impropria: nel passato ormai remoto (avvio degli anni Settanta) Nixon aveva bisogno di informazioni sugli avversari elettorali, in quello prossimo a Bush urgevano prove sull’esistenza delle armi di distruzione di massa in dotazione a Saddam. Se la Cia avesse sfornato rapporti in direzione contraria, sarebbe bastato cambiarne il senso e la direzione. E così
è stato fatto. Una storia vera, da effetti collaterali sul fronte interno del conflitto, perché chi si opponeva rischiava di passare brutalmente nel tritacarne. Come?
Per esempio, suggerendo a una popolare rubrica giornalistica che una certa signora, Valerie Plame, moglie di Joseph Wilson un ex diplomatico autore di una pubblica denuncia sulle distorsioni in tema della Casa Bianca, non era nient’altro che un agente operativo della Cia. Con tutta la disperata e tragica problematica che una simile rivelazione comporta in fatto di maschere cadute e pugnali improvvisamente spuntati.
Già, un bel romanzo scritto dalla realtà e che al cinema può anche significare un ritorno delle spie in un ruolo liberal, proprio come era già accaduto per quei Tre giorni del Condor immersi nella plumbea atmosfera della miscela post Vietnam-Watergate.
Il film ha un titolo, Fair Game, diretto da Doug Liman, interpretato dalla coppia Naomi Watts-Sean Penn, presentato in concorso a Cannes 2010, sarà presto nelle sale italiane.
Un thriller di confezione emozionale dove, sotto l’assedio e l’assalto da parte del capo dello staff del vicepresidente Dick Cheney, alla tensione da integrità morale, professionale e politica si aggiunge una deriva da crisi matrimoniale, dimostrando ancora una volta
che, dagli idealisti di Capra agli inventori di accessori per auto, la famiglia diventa per Hollywood il terreno di cultura per riscoprire forza, coraggio, valori ed etica. La Guerra in Iraq vista dalla trincea domestica ha ricadute lancinanti e nient’affatto propagandistiche così che anche la Cia assume connotati inediti, gli stessi che possono essere rintracciati nelle sequenze adrenaliniche di Green Zone, dove è un uomo dell’Agenzia l’alleato più affidabile di Matt Damon, un ufficiale a capo di un reparto speciale incaricato di trovare l’arsenale micidiale del dittatore di Bagdah e che, invece, individuerà nella “zona verde”, dove risiede l’esecutivo civile e militare, il luogo della menzogna
e dell’intrigo. E visto che (quasi) tutto si lega non è neppure un caso che la regia di Green Zone appartenga a quel Paul Greengrass che, proprio con lo stesso Damon protagonista, ha costruito il successo del capitolo secondo e terzo (Supremacy e Ultimatum) della trilogia dedicata a Jason Bourne, altro eroe in chiaroscuro che nell’epoca del terrorismo e dell’antiterrorismo, è destinato per vocazione ad alzare
nidi di vipere in congiura.
Il che sposta l’attenzione sul ruolo della spia americana tanto al cinema quanto in letteratura. Una funzione assai vicina al grado zero se si pensa che, ovviamente a livello d’immaginario internazionale, Washington non ha mai avuto durante la Guerra Fredda un personaggio della caratura di James Bond.
Questo non solo perché l’ideologia puritana, a differenza della tradizione inglese, escludeva il “popolo dell’ombra” dalla lista di chi frequenta un mestiere onorevole, ma perché il ruolo dell’eroe di massa era delegato, nella finzione, al Presidente. Non è neppure un altro caso che Tom Clancy, lo scrittore che ha rilanciato la narrativa di spionaggio statunitense da Ottobre Rosso in poi, abbia saldato la figura del suo Jack
Ryan (sullo schermo con il volto di Alec Baldwin, di Harrison Ford e di Ben Affleck) a quella dell’inquilino della Casa Bianca, portando Ryan, dai vertici della Agenzia e dalla nomina a consigliare particolare, alla scrivania dello Studio Ovale dopo un attentato che, in una fosca profezia dell’11 settembre, falciava di un colpo tutta la catena di comando degli Stati Uniti.
Ma la pregiudiziale puritana non è affatto caduta: tanto con il “Condor” di Robert Redford quanto con Jack Ryan e sino alla Valerie Plame di Fair Game, la spia perde una specifica connotazione avventurosa di puro intrattenimento per rivelarsi una sorta di “mister Smith” che si batte contro imbrogli e corruzione. In una simile dimensione Hollywood non fa sconti a nessuno, anzi si incarica di demolire proprio quella barriera
apparentemente invalicabile della “sicurezza nazionale” che nasconde intrallazzi e illegalità. Si torna dunque alla frase tratta dalla Bibbia, ma senza troppe illusioni. Il gioco-strategia del facile bersaglio (“fair game”, appunto) è sempre in agguato. E così Cia.