E’ curioso constatare che il film più vivo, giovanile e divertente di questo uggioso inizio di primavera sia firmato da uno dei registi più anziani (classe 1924) della nuova Hollywood uscita dalla rivoluzione televisiva degli anni Cinquanta: un regista noto soprattutto per la diligenza professionale, oltreché per il suo impegno spettacolare sovente venato di moralismo.
Cambio di prospettiva a causa della generale decadenza della qualità media del cinema degli ultimi anni o improvvisa impennata di un “metteur en scène” ormai ultraottantenne? Credo che la risposta debba essere in entrambi i casi positiva. A Prova a incastrami manca la complessità dello stile e la potenza di uno sguardo personale sulla realtà per essere davvero un grande film. In compenso, però esibisce una sceneggiatura ben congegnata, personaggi ben definiti e un’ottima direzione degli attori: cioè, le virtù più specifiche del cinema classico americano. E soprattutto – questa è in gran parte la novità che Lumet introduce nella sua filmografia – c’è nei suoi fotogrammi un tocco di sincera malinconia, la consapevolezza della fine di un’epoca, che comunque non porta mai alla rinuncia di se stesso e dei propri valori esistenziali.
Il tutto raccontato attraverso il graffiante e ironico rovesciamento dei valori fondanti della società statunitense (e del suo cinema giudiziario), ponendo al centro del film un personaggio con cui è impossibile solidarizzare sul piano civile: mafioso, cocainomane, esibizionista, violento, sicuramente ignorante. Ma anche simpatico, se non altro per la sua assoluta fedeltà ai valori in cui ciecamente crede: famiglia e amicizia. Anche questa volta Lumet prende spunto dalla cronaca – il più lungo processo della storia giudiziaria del New Jersey dal quale uscirono tutti assolti i capi riconosciuti della mafia italo-americana – per rinchiudersi quasi subito in un ambiente ristretto (ancora un tribunale), in cui esaltare la sua mai dimessa predilezione per gli impianti teatrali.
Ed è dentro a questo rigida definizione drammaturgica che Lumet dà il meglio di sé con sapienti piani ravvicinati, confronti a montaggio alternato, divertiti piani d’ascolto e raffinate schermaglie verbali destinate a concludersi nella contrapposizione delle arringhe. Come si conviene al “genere” nel quale s’iscrive, il film mette in gioco l’accusa, la difesa, i testimoni, il giudice, la giuria e, ovviamente, gli imputati che qui sono molto numerosi. L’unico assente è il pubblico. Il suo ruolo viene però assegnato agli spettatori, invitati a concentrarsi sugli effetti che in questo microcosmo scaturiscono dal fatto che un piccolo gangster, imputato minore già condannato a trent’anni di reclusione per spaccio di droga e ottimamente interpretato da un sorprendente Vin Diesel, decide di difendersi da solo. E si tratta di effetti esilaranti e sconvolgenti insieme: accusa ridicolizzata, giudice e giuria (e, con loro, gli spettatori) sempre più affascinati dal quel corpo estraneo che i suoi stessi coimputati guardano con disprezzo. Infine, la giustizia è sconfitta e i colpevoli restano impuniti (questa è cronaca), ma tutta l’attenzione va a quell’eccentrico protagonista del film che se ne torna in carcere a scontare la sua pena: solitario e vincente come un eroe del vecchio western.
Prova a incastrarmi
(Find Me Guilty, USA, 2006)
Regia: Sidney Lumet
Sceneggiatura: Sidney Lumet, T. J. Mancini, Robert J. McCrea
Fotografia: Ron Fortunato
Scenografia: Emily Beck
Costumi: Tina Nigro
Montaggio: Tom Swartwout
Interpreti: Vin Diesel (Giacomo “Fat Jack” DiNorscio), Ron Silver (giudice Finestein), Richard Portnow (Max Novardis), Paul Borghese (Gino Mascarpone), Tim Cinnante (Joey Calabrese), Vinny DeGennaro (Danny Roma), Peter Dinklage (Ben Klandis), Alex Rocco (Nick Calabrese), Gene Ruffini (DiNorscio padre), Marcia Jean Kurtz (Sara Stiles), Raul Esparza (Tony Compagna).
Distribuzione: Medusa Cinematografica
Durata: 125 minuti
(di Aldo Viganò)