La genesi narrativa e l’impostazione ideologica di questa ricostruzione dell’ultimo giorno di vita del senatore Robert F. Kennedy, ucciso a colpi di pistola all’Hotel Ambassador di Los Angeles nel corso della campagna elettorale per le primarie democratiche del 1968, si esplicitano soprattutto alla fine del film, che segna l’esordio nel lungometraggio cinematografico dell’attore e regista televisivo Emilio Estevez, figlio di Martin Sheen e fratello di Charlie Sheen.
Sotto le pallottole del giovane killer giordano, che dichiarò di aver agito da solo per protesta nei confronti della politica filo-israeliana di Kennedy, caddero infatti non solo il senatore (unico colpito mortalmente) ma anche un giovane renitente alla leva, una signora della buona società, due giovani dell’entourage kennedyano e alcuni dipendenti dell’albergo. Da qui l’idea di Estevez di raccontare quella giornata funesta attraverso la ricostruzione di ciò che quei personaggi (ed altri intorno a loro) avevano fatto nel corso delle ore immediatamente precedenti, mettendo il tutto in rapporto con le immagini documentaristiche dedicate allo stesso Bob Kennedy e alla riproduzione in colonna sonora di alcuni passaggi dei suoi celebri discorsi. In questo senso, l’operazione ricorda da vicino quella compiuta da Clint Eastwood in Flags of Our Father: andare alla ricerca di ciò che sta dietro alla cronaca.
Ma con una differenza di fondo. Se Eastwood, infatti, muove da un’immagine fotografica (anzi due) per alzare progressivamente il tono sino a una riflessione sul mito, sull’ambiguità della comunicazione, sulle contraddizioni della Storia, sulle complesse connessioni tra la vita e la morte; Estevez si accontenta di molto meno e porta sullo schermo essenzialmente la fine di un sogno (si veda a proposito il lungo collage di fotografie che si snoda sotto i titoli di coda). Punta, cioè, soprattutto su un’operazione nostalgia, che assume diretta e forte risonanza contemporanea attraverso l’evidente corrispondenza che lo spettatore è invitato a tracciare tra guerra del Vietnam (allora) e quella dell’Iraq (oggi), tra l’altezza di tono della parole di Bobby e l’utilitaristica funzionalità di quelle di Bush.
Bobby è dichiaratamente un film “liberal”, che rimpiange ciò che l’America avrebbe potuto essere senza quei colpi di arma da fuoco (conseguenti a quelli che due mesi prima uccisero Martin Luther King o a quelli che nel 1963 provocarono la morte John F. Kennedy); ma anche un film che si colloca molto lontano sia dall’interventismo politico di Michael Moore, sia dalla problematicità squisitamente cinematografica di Clint Eastwood. Con tecnica narrativa a incastro e con lunghi piani sequenza a seguire, che ricordano molto da vicino certo Robert Altman, Estevez si limita a raccontare il suo “Grand Hotel” della fine degli anni Sessanta.
Gente che va e gente che viene: con tanto di portiere, ormai in pensione, che il produttore Anthony Hopkins riserva per sé. Piccole storie personali, sullo sfondo della grande Storia. L’America dell’uomo qualunque che piange la fine del sogno americano: la libertà e la felicità condivisa, ma anche l’intervento ecologico e la fiducia nel futuro. Molto commovente. Forse anche troppo. Di sicuro un film confezionato con grande abilità e affidato a un cast di primordine.
Bobby
(USA 2006)
Regia e sceneggiatura: Emilio Estevez
Fotografia: Michael Barrett
Musica: Mark Isham
Scenografia: Patti Podesta
Costumi: Julie Weiss
Montaggio: Richard Chew
Interpreti: Harry Belafonte (Nelson), Emilio Estevez (Tim Fallon), Laurence Fishburne (Edward Robinson), Antony Hopkins (John Casey), Helen Hunt (Samantha), Demi Moore (Virginia Fallon), Martin Sheen (Jack), Sharon Stone (Miriam)
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: 112 minuti
(di Aldo Viganò)