Una ragazza borghese (Anne Hathaway) torna a casa per il matrimonio della sorella (Rosemarie Dewitt) e, come si conviene ai film famigliari modello Sundance Festival, questo spunto narrativo diventa occasione per una galleria di ritratti psicologici, di piccoli e grandi conflitti mal nascosti dal tempo, di tensioni interpersonali spinte sino al limite della deflagrazione, che portano con sé una lunga storia di crisi personali, conflitti famigliari e segrete tragedie.
Attraverso immagini costruite con la camera in mano, simulando di carpire frammenti dello scorrere della vita, lo spettatore viene poco a poco informato che Kim, la protagonista, è in libera uscita da una casa di cura per tossicodipendenti, obbligata a frequentare una terapia di gruppo dove incontra anche il testimone dello sposo; soprattutto che in lei non si è mai rimarginata la ferita di aver provocato la morte dell’amato fratellino, quel giorno in cui guidò la macchina completamente fatta di droga. Onde, tutte le conseguenze di una crisi famigliare che anche il clima di festa prematrimoniale mal riesce a celare.
Separazione dei genitori, con la madre (Debra Winger) che se ne va lontano a vivere con un altro uomo, rifiutandosi di lasciarsi sommergere dalle ombre del passato; mentre il padre (Jerome Le Page) s’immerge nel suo lavoro di produttore musicale, trova una nuova e sileziosa compagna, e cerca invano di continuare a vivere come se nessuno fosse colpevole dell’accaduto. Il clima evocato dalla sceneggiatura dell’esordiente Jenny Lumet, figlia del regista Sidney, suggerisce con evidenza lo psicodramma televisivo, lasciando alla saggia sorella Rachel il ruolo del desiderio di un’esistenza “normale” e all’esteriore perbenismo della sua amica del cuore quello di suggerire il vuoto e la pochezza di tale “normalità”, mentre la festante comunità multietnica di musicisti che ruota intorno allo sposo e al banchetto nuziale concorre a dare al tutto uno sfondo di freschezza quotidiana, ritmo e verità.
Fin dall’inizio si sa che, con la mina vagante rappresentata da quella “figliol prodica”, qualcosa finirà per esplodere in quella casa; ma, in fin dei conti, che ciò accada o no ben poco interesserebbe allo spettatore, se dietro a quella videocamera sempre in movimento non ci fosse un regista di talento quale Jonathan Demme. È infatti solo in virtù del suo modo labirintico di far vivere i personaggi nello spazio, incrociandone i corpi e gli sguardi, in un via vai che finisce col somigliare a un onirico balletto musical-cinematografico, al limite dell’horror, evitando il più possibile di appiattirsi sui dolciastri luoghi comuni evocati dalla sceneggiatura, che Rachel sta per sposarsi restituisce comunque allo spettatore qualcosa di cinematograficamente interessante.
Portando in primo piano quella componente sperimentale presente sullo sfondo di tutti i suoi film (compreso il “classico” La congiura degli innocenti: basti pensare a tutta la parte finale nell’antro del Male), Jonathan Demme punta qui a costruire, con la libertà offertagli dal basso costo delle riprese in digitale, un universo visivo inquieto e inquietante, che trascende la melensa banalità dei personaggi (pur affidati ad attori di qualità, ottimamente diretti), riuscendo nonostante tutto consegnare allo schermo un film in cui si respira ancora una salutare aria di cinema.
Rachel sta per sposarsi
(Rachel getting Married, Usa, 2008)
Regia: Jonathan Demme
Sceneggiatura: Jenny Lumet
Fotografia: Declan Quinn
Musica: Donald Harrison jr e Zafer Tawil
Scenografia: Ford Wheeler
Costumi: Susan Lyall
Montaggio: Tim Squyres
Interpreti: Anne Hathaway (Kym), Rosemarie DeWitt (Rachel), Mather Zickel (Kieran), Bill Irwin (Paul), Anna Deavere Smith (Carol), Anisa George (Emma), Tunde Adebimpe (Sidney), Debra Winger (Abby), Jerome Le Page (Andrew).
Distribuzione: Sony Pictures Releasing
Durata: un’ora e 54 minuti
(di Aldo Viganò)