Il tema centrale di questo cartone animato per adulti, che inizia con un incubo da cinema dell’orrore e finisce nell’inferno della realtà documentaria, è il senso di colpa di un intellettuale israeliano (l’autore stesso del film) che si manifesta in forma di rimozione della memoria degli avvenimenti dei quali era stato diretto testimone nel 1882, quando giovanissimo (“ancora non mi facevo la barba”) prese parte alla prima fase della guerra del Libano.
Era il tempo in cui, al fine di sconfiggere i palestinesi, lo Stato d’Israele di cui era ministro della difesa Ariel Sharon si permetteva qualche “giro di valzer” con il leader dei cattolici libanesi, il presidente Bashir Gemayel, e con i suoi sanguinari falangisti, i quali, quando il loro capo venne fatto saltare in aria in un attentato, si scatenarono tra Sabra e Shatila, trucidando centinaia, forse migliaia, di civili rifugiati nei campi profughi palestinesi. Un turpe episodio con l’impronta di pulizia etnica, avvenuto sotto la protezione dei carri armati israeliani, e davanti agli occhi dei soldati dell’esercito ebraico, che quando entrarono in quei campi si trovarono davanti a uno teatro di morte non molto diverso di quello che i tank russi o americani scoprirono con orrore nei lager nazisti.
Per raccontare questa ferita alla coscienza di un intero popolo sopravvissuto a un genocidio, Folman sceglie la via della psicanalisi e, partendo dalla rimozione nell’inconscio dei fatti cui ha pur assistito, ricostruisce con l’aiuto di alcune testimonianze il ripristino dell’Io cosciente, che si manifesta infine nel brusco passaggio dal metaforico mondo del disegno al crudo realismo fotografico di scene riprese dal vero, nel luogo dell’eccidio, da cineprese traballanti e con inquadrature non sempre a fuoco. Certo il film di Folman è abile e ben confezionato. Sicuramente ha il merito di portare in primo piano la denuncia di fatti orribili con l’esplicito intendo etico e politico di evitare che si possano ripetere.
Però, quello che a mio avviso (ma so di essere abbastanza isolato) risulta non pienamente convincente è l’uso della bidimenzionalità del cartone animato, pur realistico nella rappresentazione visiva, per raccontare una storia che, fatte poche eccezioni di carattere onirico, si sviluppa soprattutto in lunghe chiacchierate del protagonista con coloro che come lui sono stati testimoni dei fatti. Se quella che si racconta è una storia di esseri umani, perché non dare a loro anche una consistenza visiva in carne ed ossa? Solo per il colpo di scena finale? Un po’ poco, tanto più perché per quasi un’ora e mezza c’è qualcosa di inevitabilmente piatto e stucchevole, quando non anche di caricaturale, in quei lunghi primi piani di volti disegnati che sembrano più fungere da accompagnamento illustrativo di un racconto verbale, piuttosto che concorrere cinematograficamente alla costruzione narrativa e ideologica di un film, il quale in fin dei conti finisce con l’accontentarsi della trasparenza della propria utilità contingente, piuttosto che ambire alla complessa universalità della bellezza estetica.
Valzer con Bashir
(Waltz with Bashir, Germania-Francia-Israele, 2008)
Regia, soggetto e sceneggiatura: Ari Folman
Art Director e illustratore: David Polonskey
Direttore dell’animazione: Yoni Goodman
Montaggio: Nili Feller – Supervisore degli effetti visivi: Roiy Nitzan
Musica: Max Ritcher
Suono: Aviv Aldema
Distribuzione: Lucky Red
Durata: un’ora e 30 minuti
(di Aldo Viganò)