Esultano coloro che sin dai primi anni Settanta impararono ad amare quel suo modo di fare del cinema con i personaggi che guardano direttamente in macchina per spiegare allo spettatore il senso della vita sullo sfondo carezzevole di una New York nevrotica e multirazziale: Woody Allen è tornato dall’esilio europeo nella “sua” Manhattan e, pur per interposta persona (al suo posto sullo schermo c’è il divo televisivo Larry David) e tirando fuori dal cassetto un vecchio copione scritto per Zero Mostel, torna a sciorinare battute a raffica e a portare in primo piano la sintesi della sua concezione dell’esistenza umana.
E, come si conviene alla matrice culturale ebraica di cui si alimenta, si tratta di una concezione in gran parte condivisibile, venata da una comicità un po’ cinica anche se mai volgare, sottesa da un individualismo fondamentalmente tollerante, laico e capace di strappare un sorriso proprio anche per la sua ostentata contraddittorietà. La vita è uno schifo continua a ripetere il fisico quantista in pensione Boris (giunto a suo dire a un passo dal Nobel), ma è anche l’unica cosa che abbiamo come alternativa al suicidio. Ogni relazione umana (amicizia, amore, famiglia, società) è sempre squilibrata, enfatizza il film, ma alla fine poi “basta che funzioni”. «Così è la vita, bellezza!» dice e ripete Woody Allen, raccontando l’incontro dell’astioso fisico con una miss di provincia sperduta nella Grande Mela e incapace di ogni mediazione culturale. «Così è, e tanto vale farsene una ragione» ribadisce il regista intrecciando al plot centrale molte divagazioni con personaggi di contorno.
Come dargli torto in questa sua filosofia spicciola, simpatica e consolatoria, che ci garantisce di uscire dalla visione di Basta che funzioni sereni e rappacificati con il mondo? Ma ancora una volta, Woody Allen fa un film tutto in prima persona ed esplicitamente narcisistico. Un film dove la semplicità diretta dell’enunciazione tematica ha il netto sopravvento sull’autonoma significanza del modo in cui questa si dovrebbe tradurre in ciò che i personaggi fanno e dicono sullo schermo; dove l’amore per la battuta viene sempre prima della verosimiglianza narrativa e dei rapporti tra autentici esseri umani; dove l’Io narrante del regista-autore prende il netto sopravvento su tutto, e tutto tende a soffocare, anche il cinema stesso. E questo “c’è a chi piace e a chi non piace” direbbe Totò. Se i primi escono contenti e appagati dalla visione di Basta che funzioni, i secondi vi trovano conferma che – nonostante i suoi conclamati amori per Fellini, Bergman e Cechov – Woody Allen continua sempre a fare un cinema che assomiglia troppo da vicino al cabaret e alla televisione, preferendo sempre usare lo schermo come specchio di se stesso piuttosto che della vita o del mondo.
Basta che funzioni
(Wathever Works, Usa, 2009)
Regia e sceneggiatura: Woody Allen
Fotografia: Harris Savides
Scenografia: Santo Loquasto
Costumi: Suzy Benzinger
Montaggio: Alisa Lepselter
Interpreti: Larry David (Boris Yellnikoff), Evan Rachel Wood (Melodie St. Ann Celestine), Carolyn McCormick (Jessica), Patricia Clarkson (Marietta), Adam Brooks, Lyle Kanouse e Michael McKean (gli amici di Boris), Ed Begley jr. (John), Henry Cavill (Randy James), Jessica Hecht (Helena).
Distribuzione: Medusa Film
Durata: un’ora e 32 minuti
(di Aldo Viganò)