Il cinema “noir” francese sta vivendo in questo primo scorcio del secondo Millennio una nuova giovinezza. Ed ecco che, dopo i viaggi nell’inferno sociale ed esistenziale dei tutori della legge proposti dall’ex-poliziotto Olivier Marchal (36 quai d’Orfevre, L’ultima missione) e dopo il dittico criminale (Nemico pubblico n. 1: L’istinto di morte e L’ora della fuga) di Jean-François Richet, a quasi un anno dal Grand Prix della Giuria ottenuto al Festival di Cannes, giunge anche sugli schermi italiani questo bel film carcerario di Jacques Audiard, che al cinema si era sinora fatto notare soprattutto come sceneggiatore.
E un film dal forte impianto narrativo è anche Il profeta che, con ampio respiro, racconta il lento processo di formazione di un giovane e silenzioso arabo che, dopo il riformatorio, viene trasferito nel penitenziario per scontarvi una condanna di sei anni, durante i quali impara velocemente le regole della vita (e non solo di quella del carcere). Qui Malik si scontra subito con le piccole violenze quotidiane, alle quali le molte cicatrici sul suo corpo sembrano già indicare una lunga abitudine. Lavora nella sartoria del carcere acquistando in poco tempo una competenza professionale. Viene adocchiato dal capo indiscusso della gang dei corsi (un “regale” Niels Arestrup) come colui che meglio potrebbe uccidere un’”infame” in cella di segregazione. Cerca di ribellarsi, ma si scontra con le rigide regole della omertà e della collusione penitenziaria. La prima virtù di Malik è quella di sapersi adeguare in fretta alle circostanze che la vita gli offre. Eseguito infine il mandato, vive ora sotto la protezione del “re” dei corsi. Lo serve e lo osserva. Impara la sua lingua e non commette più alcun errore. Giunto il tempo della libertà provvisoria, Malik la usa non solo per eseguire i compiti affidatigli dal suo “capo”, ma anche per organizzare il proprio futuro. Egli si muove sempre più agilmente tra le rivalità che dividono i corsi dagli italiani e tutti dagli arabi.
Il carcere è ormai il suo regno e, scespirianamente, s’impadronirà infine anche della “corona” di Niels Arestrup che a lui si è sempre più legato. Il profeta è una tragedia carceraria che annuncia l’avvento di un mondo nuovo. Un film diretto e immediatamente comunicativo, girato sovente con la cinepresa in mano. La classicità etica cara al cinema di Melville e di Becker è qui solo apparentemente lontana. Senza alcun moralismo (anche se si concede qualche inserto onirico fondamentalmente utile), Audiard costruisce un personaggio “alto” attraverso un’ellittica accumulazione di fatti, lo fa vivere dentro a uno spazio cinematografico progressivamente sempre più aperto ai campi lunghi, ne definisce in modo efficace e sintetico le contrapposizioni drammatiche, tutte incentrate intorno alla progressiva uccisione del padre, per dare origine a un nuovo regno che non è certo detto sarà migliore. E’, comunque, il futuro. Questa è la vita, la nostra vita, sembra dirci in ogni suo fotogramma Jacques Audiard. E così dicendo ci restituisce il piacere di andare al cinema.
Il profeta
(Un prophète, Francia 2009)
Regia: Jacques Audiard
Soggetto: Abdel Raouf Dafri e Nicolas Peufaillit
Sceneggiatura: Thomas Bidegain e Jacques Audiard
Fotografia: Stéphane Fontaine
Scenografia: Michel Barthélémy
Costumi: Virginie Montel
Musica: Alexandre Desplat
Montaggio: Juliette Welfling.
Interpreti: Tahar Rahim (Malik El Djebena), Niels Arestrup (César Luciani), Adel Bencherif (Ryad), Hichem Yacoubi (Reyeb), Reda Kateb (Jordi), Jean-Philippe Ricci (Vettori), Gilles Cohen (il professore), Antoine Basler (Pilicci), Leila Bekhti (Djamila), Pierre Leccia (Sampierro).
Distribuzione: Bim – Durata: due ore e 35 minuti