Shutter Island – Recensione Aldo Viganò

Giunto ormai a festeggiare le nozze d’oro con la regia cinematografica (sono infatti trascorsi cinquant’anni dal suo esordio con Vesuvius VI), Martin Scorsese non sembra aver ancora voglia di diventare un classico e, film dopo film, continua a mettere in gioco il suo indubbio talento, gettandosi in imprese che hanno il sapore dell’impossibile. Per Scorsese, il cinema non è mai negli argomenti affrontati, ma è innanzitutto una questione di sguardo, di ritmo e di strutture drammaturgiche.

Ciò gli ha permesso negli ultimi anni di passare senza complessi dagli ampi spazi di Kundun alla claustrofobia di Al di là della vita, dall’epica storica di Gangs of New York agli intrighi tecnologici di The departed, passando attraverso il viaggio verso l’inferno di The aviator. Mai un film perfetto, ma sempre un cinema che non rinuncia a se stesso. Come per tutti i grandi umanisti, anche per Scorsese la funzione dell’arte sta tutta nell’interrogarsi sul senso della vita e della morte attraverso la specificità del linguaggio utilizzato. La trama, nella quale ancora troppo sovente si tende a identificare il contenuto del film, in fin dei conti poco importa. Reale è solo il cinema, che della realtà si nutre nell’atto stesso di crearla. In questo senso Shutter Island è davvero e inequivocabilmente un film di Scorsese.

In questo racconto di un detective che con competenza professionale cerca di risolvere il mistero di una donna scomparsa da un manicomio criminale, ma infine riesce solo a precipitare sino in fondo nel labirinto della propria esistenza, Scorsese segue in fin dei conti lo stesso tragitto del suo protagonista. Il film inizia nell’irreale nitore pastellato di una pellicola di genere degli anni Cinquanta, s’immerge nel buio di un horror claustrofobico degno di Roger Corman e ne esce attraverso il ricorso alle più sofisticate tecnologie digitali, che però, lungi dal rendere più chiaro e limpido il mondo rappresentato, progressivamente lo complicano, facendo tutto diventare sempre più indeterminato sia per il protagonista (il sempre più complice Leonardo di Caprio), sia per lo spettatore che nel suo inconscio s’identifica, sino a perdersi sempre più all’interno di un cinema labirintico, complesso, a tratti anche provocatorio. Un cinema certo imperfetto, si diceva: troppi salti stilistici, qualche personaggio (quelli interpretati da Ben Kingsley o da Max von Sydow, ad esempio) lasciato troppo nell’indeterminatezza; anche qualche eccessivo atto d’amore per l’audacia di alcune soluzioni tecniche. Ma pur sempre un cinema vivo: un cinema che non si accontenta mai e va alla ricerca di sfide sempre più audaci per affermare se stesso. Un cinema che parla con sempre maggiore insistenza della morte, ma solo per sentirsi vivo.

Shutter Island
(U.S.A., 2010)
Regia: Martin Scorsese – Sceneggiatura: Laeta Kalogridis, dal romanzo di Dennis Lehane
Fotografia: Robert Richardson – Scenografia: Dante Ferretti – Costumi: Sandy Powell – Montaggio: Thelma Schoonmaker.
Interpreti: Leonardo Di Caprio (Teddy Daniels), Mark Ruffalo (Chuck Aule), Ben Kingsley (Dr. Cawley), Max von Sydow (Dr: Naehring), Michelle Williams (Dolores Chanal), Emily Mortimer (Rachel 1), Patricia Clarkson (Rachel 2), Jackie Earle Haley (George Noyce), Ted Levine (Warden), John Carroll Lynch (Warden McPherson).
Distribuzione: Medusa Film – Durata: due ore e 18 minuti

(di Aldo Viganò)

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