L’aldilà: questo significa la parola hereafter. Ovvero quello che c’è (se c’è) after here, dopo qui. Ma here e after, in sequenza, dicono il contrario, indicano prima il qui e poi il dopo: e va detto subito che Eastwood è molto più interessato al qui che non al dopo. Perché è di questo, della vita e non del dopo vita, che parla il suo ennesimo grande film.
Tante vite, spezzate da uno tsunami o da un attentato nel metrò. E tante altre vite, quelle dei sopravvissuti, di chi è stato travolto e risputato fuori dalla valanga d’acqua, di chi non è salito, per via di un cappellino, su quel vagone del metrò, di chi si ritrova a vivere da solo dopo aver perduto una persona cara, un fratello gemello, una moglie o un padre (violento). Di chi continua faticosamente a vivere con sul cuore il ricordo e il peso di una persona che se n’è andata. Le vite dei sopravvissuti sono al centro di Hereafter. L’aldilà dei morti c’entra poco: è visto in maniera confusa e soffusa, con ombre inafferrabili e vaganti, sommerse da una luce troppo bianca come in un’Ade accecante, forse pacificato ma individuale, dove ogni ombra non ha rapporti con le altre. L’aldilà che i quasimorti intravedono e che appare come in un lampo a George quando stringe o anche soltanto sfiora le mani di una persona, questo aldilà così incerto, uguale ed eterno (monotono per l’eternità?), non sta al centro del film. Al centro, c’è il dolore per la perdita di qualcuno che si amava, o anche l’impossibilità di dimenticare chi, quand’era in vita, ti ha ferito nel profondo.
Si intrecciano esistenze in Hereafter. Marie, conduttrice televisiva francese, viene sommersa dal mare che si abbatte sulla riva, si avvicina alla soglia di quell’aldilà luminoso e triste, ricomincia a respirare, torna a vivere qui. Due ragazzini gemelli vivono in simbiosi, amano e aiutano la loro madre squinternata e quando uno dei due, Jason, se ne va, l’altro, Marcus, resta silenzioso e chiuso in se stesso, però coraggioso e pronto a tutto pur di ‘ritrovare’ il fratello. Ci sono anche un greco che ha perso la moglie e Melanie, incontrata a un corso di cucina italiana (grandi elogi al barbaresco…), che scompare quando George risveglia dal passato di lei un orribile trauma nascosto. Perché questa è la maledizione di George (e questo è il cuore del film): non tanto l’entrare in contatto con il futuro dei morti, quanto piuttosto il ‘vedere’ il loro passato. Vedervi anche ciò che è inconfessabile. Non è l’aldilà che interessa a Eastwood, quanto ciò che del passato pesa sui personaggi e non permette loro di vivere.
George vuole guarire dalla sua maledizione, non vuole più ‘vedere’. Eastwood, umanissimo narratore, glielo concede. Potrà stringere una mano senza venir proiettato dentro le storie di un passato opprimente. Quando George comincerà a voler bene a qualcuno, allora potrà vivere, in pace e qui, una sua storia. Hereafter è un invito a vivere dentro l’adesso, dentro ciò che succede in questo tempo, nel mondo che è il nostro.
Nel film, c’è un filo rosso che unisce i molti momenti in cui ci si rifà a Charles Dickens. Prima di addormentarsi, George si lascia cullare da una voce che legge Dickens, poi va in pellegrinaggio alla casa del grande narratore, quindi incontra alla fiera del libro il signore la cui voce gli ha letto Dickens ogni sera. Lì, tra i libri, le storie di George, Marie e Marcus si intrecciano in un finale dickensiano in cui si racconta che per vivere la nostra storia è necessario far scivolare via il dolore dalle spalle, togliersi di testa un cappellino, baciarsi, lasciare i morti nella loro luce accecante e vivere noi nella nostra quieta luce di ogni giorno.
È come se Eastwood dicesse, con uno di quei suoi film così semplici, scorrevoli, attraenti e dolcemente umani anche quando parlano di dolore e di morte, che l’importante è vivere di qua e non guardare oltre, ricordare chi ci ha lasciato senza restare aggrappati a lui, senza volerlo trattenere. Avere, ancora e sempre, una storia da vivere, è questo che ci fa vivere davvero. Solo in questa esistenza viviamo delle storie. Nella troppa luce di un aldilà immobile non ci saranno più storie.
Eastwood fa qualcosa di più: fa dell’ironia. Ci dice che molte storie possiamo viverle nei libri; aggiunge che ci sono narratori e scrittori che le storie le sanno raccontare; suggerisce che ci sono altri narratori cui manca questo dono. Dickens è lo scrittore consigliato apertamente. Anche il nome di Rousseau compare nel film: così si chiama una dottoressa che sa ascoltare le storie di chi non ha ancora abbandonato la vita, dottoressa che vive immersa nella natura tra le montagne (forse quelle stesse svizzere di Jean-Jacques). Eastwood aggiunge un terzo nome a questo gioco letterario che si nasconde tra le pieghe del film, quello di Joyce, attribuendolo a una sensitiva fasulla e imbrogliona. Domanda: non è che il classicissimo narratore Clint Eastwood e il suo ottimo sceneggiatore Peter Morgan (The Queen, Frost/Nixon, I due presidenti) hanno voluto dirci che una buona storia alla Dickens e un sereno atteggiamento alla Rousseau sono guide e medicine sagge e utili per vivere qui e adesso (aggiungendo anche, sottovoce, che Dickens funziona meglio di Joyce)?
(Bruno Fornara)
ma che ci vuole a dire che è un brutto film!
Un film bellissimo, emozionante, eppure semplice e classico nelle immagini ma Clint dà emozioni sempre e a non finire, fa riflettere e comunica a tutti la sua immensa natura di uomo. Grande film, regista enorme, colonne sonore e musiche da brivido…Grazie Bruno per avermelo fatto conoscere e amare così tanto…
Eastwood, come sempre, mi sorprende e mi innamora. Immensa la sua capacità di sviscerare la banalità del male: straziante la scena del gemellino morto, per gli spintoni di ragazzi annoiati e feroci, in una città indifferente e caotica.Per contaminazione, mi viene in mente una frase di Don Andrea Gallo: ” L’indifferenza è l’ottavo vizio capitale”.Mi piace credere che Eastwood ci voglia suggerire di avere uno sguardo ostinato, per poter stringere una mano ed entrare nel mondo interiore del nostro prossimo!