Karlovy Vary KVIFF 2024 – Intervista a Ivana Gloria

di Massimo Lechi. 

Unico titolo italiano in concorso, nella sezione Proxima, al 58°  Karlovy Vary International Film Festival (28 giugno – 6 luglio 2024), Clorofilla segna il debutto nel lungometraggio di finzione della giovane filmmaker ossolana Ivana Gloria (al secolo Valentina Branchetti), un passato da cortista e da assistente della celebre Floria Sigismondi.

Esordio esteticamente lontano dal realismo piatto e dimesso di molto cinema italiano a basso budget, Clorofilla si presenta come un curioso e ambiziosissimo incrocio tra il romanzo di formazione e il racconto fantastico, in cui la semplicità estrema della trama, incentrata sull’incontro tra Maia (Sarah Short), ragazza dai capelli verdi in cerca di un posto nel mondo, e Teo (Michele Ragno), agricoltore solitario e ipersensibile, viene controbilanciata – spesso brillantemente – dall’inventiva delle scelte di regia e dalla disinvoltura nel ricorso continuo a simboli e rimandi al mito. Un film sulla scoperta di sé, del proprio corpo e della sensualità, attraverso il rapporto con la natura innanzitutto, e sull’accettazione del diverso.

 

Cosa ti ha attratto di questa storia?

Il film è nato perché Marco Borromei, lo sceneggiatore con cui stavo lavorando a una serie di altre idee, durante l’estate, mi aveva parlato della storia, che originariamente si intitolava Linfa. Ricordo che mentre finivo di leggere la sceneggiatura ero sotto un albero, e mi erano venuti i brividi. In tante parti me l’ero sentita cucita addosso, e avevo capito che potevo raccontarla. Mi sono proprio immedesimata, perché parla della paura del cambiamento, un sentimento che ho provato nella mia vita, come credo tutti.

Portare sullo schermo una sceneggiatura scritta interamente da altri non è molto comune per un esordiente.

Anch’io all’inizio ho avuto dei dubbi, mi sono chiesta se fosse giusto esordire con una sceneggiatura scritta da qualcun altro… Però io faccio la regista, mi piace raccontare storie, indipendentemente dal fatto che le scriva io o le scriva un’altra persona. Il fatto di dover essere un tutt’uno con la penna e il set è una cosa più che altro europea.

Ti senti più una donna di immagini?

Sì. Io ho iniziato prima di tutto disegnando, poi è arrivata la fotografia. Ho fatto storyboard, ho fatto animazione… Parto principalmente da lì, diciamo. Infatti, una volta letta la sceneggiatura, quello che mi ha aiutato è stato realizzare un moodboard.

Un moodboard?

Sì, è qualcosa che si fa principalmente in pubblicità o nei videoclip: prepari un moodboard per far capire agli altri cosa andrai a realizzare. A me è servito anche per comunicare con la produzione. Conteneva tanti riferimenti a tante cose diverse che poi hanno dato vita a Clorofilla: per esempio Border di Ali Abbasi, in cui c’è lo stesso tema del richiamo della natura, poi frame di Antichrist e Melancholia di Lars Von Trier, e de I Tenenbaum – l’immagine di Gwyneth Paltrow con dietro la parete di mattoni rossi, visto che anch’io volevo giocare sul contrasto cromatico forte tra i miei personaggi.

Quindi, mentre sfogliavi la sceneggiatura, vedevi già il film come una serie di flash e di contrasti cromatici?

Esatto. E poi per caso, praticamente nell’unico momento di location scouting che abbiamo avuto, abbiamo subito trovato la casa con gli interni rossi.

Il film è girato in Sardegna. Una scelta particolare.

Non essendo sarda ero convinta di trovare una terra brulla e secca, ed ero quasi contraria e ostile all’idea. Invece abbiamo scoperto che la regione poteva offrirci grandi cose a livello naturalistico. Con il location manager infatti abbiamo poi trovato un bosco bruciato, ma che stava rigermogliando, e che per me è diventato subito la metafora perfetta del film: Clorofilla racconta di una rigenerazione, di un cambiamento rispetto a qualcosa che è stato represso.

Mi colpisce il fatto che tu abbia deciso di togliere riferimenti precisi a quel territorio: l’hai spersonalizzato, astraendolo. E questo sforzo di creare uno spazio neutro – e universale – lo si nota anche nelle scene di interni.

Forse è perché mi affascinano di più le scenografie dei film stranieri. Non mi ritrovo molto in quelle delle serie e dei film italiani.

Fare un film è innanzitutto creare un mondo?

Sì, assolutamente.

Scorrendo la sinossi, uno potrebbe pensare a una storia ecologista. Ma come hai già in parte detto, il cuore di Clorofilla è altrove.

Io non ho mai pensato a uno sfondo ambientalista, né leggendo la sceneggiatura né parlandone con Marco. Ma devo dire che è capitato che, a una proiezione, uno spettatore – un signore di una certa età – ci abbia detto di essersi ritrovato più nel tema della riconnessione con la natura che non in quella che era la nostra intenzione, cioè raccontare una storia intima, identitaria, di un ritrovamento di sé e della necessità di lasciarsi andare alla propria natura.

La tua è stata un’operazione cinematograficamente complicatissima.

Me ne rendevo conto mentre lo facevo! (ride) Mi piace tantissimo il rischio, la sfida. A causa dell’elemento fantasy il film si teneva in bilico, era come camminare su un filo. Poi con poco budget, poco tempo… Sono veramente impazzita.

E gli effetti?

Non c’è CGI. I fiori del film, per esempio, sono stati tutti realizzati in maniera materica dallo studio Baburka di Roma, dove attraverso un processo di stabilizzazione sono riusciti a far durare nel tempo e a mantenere invariati dei fiori veri.

Mi sembra che l’aspetto artigianale del cinema ti appassioni molto.

Sì, forse deriva anche dal fatto che in passato ho realizzato tanta animazione in stop-motion. Ma è un lavoro che adesso non ho più voglia di fare perché è troppo lungo e noioso, e ti costringe a stare da solo per troppo tempo.

Anche in quel campo c’è una concretezza, si lavora con qualcosa di tangibile.

Mi piace molto la matericità. Anche se è difficile da gestire, come i fiori del film, che quando arrivavano in campo erano fragilissimi. Il più delle volte l’attrice doveva tornare in camerino a montare altri fiori nuovi che venivano rigenerati così da avere il primo piano perfetto senza i petali spezzati. E questo era tutto altro tempo che veniva tolto alla realizzazione del film sul set.

È stata questa la parte più difficile delle riprese?

Una delle tante. È stato un film davvero sofferto. A un certo punto è pure sembrato che non si dovesse più fare – come spesso succede nel cinema, dove i progetti saltano all’improvviso senza che nessuno sappia bene il perché. E invece, a un mese e mezzo dalle riprese, si è risollevato magicamente. Durante la lavorazione ho pensato spesso al detto “dalla merda nascono i fiori”, e l’ho usato come mantra… (ride) La prima difficoltà è stata il tempo: abbiamo girato in quattro settimane. Poi trovare le persone: l’operatore l’ho conosciuto cinque giorni prima di iniziare a girare, le ragazze dello studio dei fiori due settimane prima, l’attore protagonista forse tre. È stato fatto tutto molto di pancia.

Al di là degli effetti, senza gli attori giusti Clorofilla sarebbe collassato.

Sarah Short è stata bravissima, perché fin dall’inizio abbiamo avuto un percorso travagliato: la produzione non era convinta e io invece continuavo a rassicurarla. Per lei è stato un processo di mesi, ma si era talmente affezionata alla sceneggiatura! Il suo agente mi avevo fornito alcuni suoi self-tape, nel primo dei quali avevo trovato un’ironia che mi aveva colpita. Era un’ironia che mi sembrava che lei utilizzasse quasi per nascondersi…

Che è quello che fa il suo personaggio. Come hai lavorato con lei e gli altri attori?

Il mio focus era Maia, mentre Teo lo vedevo come una sorta di specchio. Quando abbiamo trovato Michele Ragno abbiamo iniziato a fare delle prove tra di noi nei parchi di Roma, in cui fin da subito abbiamo condiviso molto delle nostre vite per poter provare a trovare delle chiavi di lettura dei personaggi. Poi è stata salvifica, anche se forse per loro è stata mortale, la settimana di prove nelle location del film, come la serra, la casa e il luogo dove si svolge la Festa della Primavera. Volevo fare vari piani sequenza, da alternare nella narrazione ai campi fissi, rendendo la macchina da presa un personaggio, e quindi tutti dovevano conoscere le loro posizioni.

E le scene nel bosco, quei grandi tableaux notturni?

I notturni sono in realtà dei diurni. Quelle sono state l’oggetto di una grande diatriba tra me e il direttore della fotografia, che inizialmente era contrario. Abbiamo girato in day for night sfruttando le piccole gocce di luce che filtravano tra le foglie per creare il bagliore lunare. Siccome era un film fantasy non avevo nessuna paura di fare qualcosa che potesse risultare poco realistico.

Vedo che non hai problemi a usare la parola “fantasy”: ti ritrovi in quella definizione.

Qualcuno ha anche etichettato il film come drammatico, e a distanza di mesi, rivedendolo, devo dire che sì, c’è proprio una linea drammatica che lo tiene insieme. Quindi direi che “fantasy drammatico” è la definizione giusta.

Te lo chiedo perché ultimamente, nel cinema italiano, da Matteo Garrone ad Alice Rohrwacher, c’è stata una sorta di esplosione del realismo magico.

Mi piacciono molto i lavori di entrambi i registi. E anche a proposito del mio film, che ha un elemento fantastico, in effetti è corretto parlare di realismo magico. Mi interessa l’aspetto della fiaba, anche se sulla carta l’elemento surreale non mi convince, e non mi convinceva neanche nel caso di questa storia… Forse è perché ho una specie di rifiuto nei confronti delle cose che mi piacciono. (ride)

 

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