di Antonella Pina.
Fremont del regista Babak Jalali, nato nel nord dell’Iran e al suo quarto lungometraggio, ha vinto il Premio della giuria ex aequo con The Sweet East.
Fremont è una città della California a circa 60 chilometri da San Francisco dove vive Donya, una giovane e bella rifugiata afgana. Vive sola in un quartiere abitato da altri afgani, isolata e malgiudicata da alcuni suoi connazionali perché in Afghanistan lavorava come traduttrice presso l’esercito americano.
Donya lavora a San Francisco, in una fabbrica di biscotti della fortuna, biscotti ancora realizzati artigianalmente, di origine giapponese, dentro ai quali vengono nascosti piccoli pezzi di carta su cui sono scritte frasi profetiche. Patisce la solitudine e non riesce a dormire, interagisce poco con gli altri esseri umani e non ride mai. Anche se non ne parla le manca il suo Paese e la sua famiglia.
Decide così di andare da uno psichiatra, non per raccontare i suoi problemi ma semplicemente per ottenere un sonnifero. Lei continuerà a parlare poco, sottolineando sempre il bisogno di farmaci, sarà invece lo psichiatra, dopo una prima fase di ostentata ostilità, ad aprirsi con lei leggendo con grande partecipazione alcuni brani emblematici dal romanzo Zanna Bianca di Jack London. La situazione potrebbe essere decisamente divertente, in realtà sono molte le situazioni divertenti ma Donya non ride e quindi il pubblico ha sempre qualche esitazione.
Un giorno l’anziana donna responsabile delle frasi profetiche muore. Sentiamo il tonfo e vediamo il suo busto abbattuto sulla scrivania. Niente di drammatico, anzi, c’è qualcosa di leggermente comico in questo morire. Donya prende il suo posto. Il lavoro è piacevole, è più gratificante scrivere messaggi che non confezionare biscotti, ma la vita della giovane donna non cambia fino a quando non decide di dare una scossa al suo destino: ad uno dei messaggi profetici da lei creati, sostituisce il suo numero di telefono. La bottiglia affidata al mare diventa il biscotto affidato al furgone del corriere. Com’è noto, il destino è cinico e baro e il suo messaggio finisce nelle mani della moglie del proprietario, donna presuntuosa e poco cortese nei confronti delle impiegate, contrariamente al marito dotato di una squisita e pedante cortesia. L’impiegata non viene licenziata ma la padrona non rinuncia a prendendosi gioco di lei mettendo in atto una piccola vendetta, e sarà proprio la vendetta a cambiare la vita di Donya.
È un film girato in bianco e nero semplicemente perché “così è più bello”, come ha dichiarato il regista. Ed è vero. Il bianco e nero è perfetto per raccontare questa storia dallo stile insolito, un dramma attraversato da una vena di sottile comicità e con un timido raggio di sole nel finale.
Ricorda inevitabilmente i film di Jarmush, e qualcosa del cinema di Kaurismaki e di Wes Anderson. Gregg Turkington nelle parti dello psichiatra è perfetto ma Bill Murray non sarebbe stato da meno.
Fremont ha vinto numerosi premi, tra questi quello per la regia al Karlovy Vary International Film Festival.
Dopo la proiezione, nella grande hall del CID, sono stati offerti i biscotti della fortuna. Il mio non conteneva alcun messaggio profetico ma, sicuramente, anche l’ assenza nasconde una profezia che difficilmente possiamo immaginare propizia. Chissà. Vedremo.