di Antonella Pina.
Ritrovati e Restaurati è sempre una sezione entusiasmante del “Cinema Ritrovato” e per questa XXXVII edizione lo è stata in modo particolare. Durante gli anni della pandemia molti progetti di restauro erano stati sospesi e di conseguenza si era accumulato un po’ di materiale. Quest’anno le pellicole si sono rese disponibili e i film presentati sono stati più di 80, da L’Enfant des mariniers del 1907 dagli archivi Pathé, a Inland Empire di David Lynch del 2006. “Un festival nel festival”, come Gian Luca Farinelli, presentandola, ha definito questa sezione.
Abbiamo visto vere meraviglie. Ne ricordiamo alcune.
Macario (Morte in vacanza) di Roberto Galvadón, un film messicano del 1960 tratto dall’omonimo racconto di B. Traven. La bella fotografia in bianco e nero è di Gabriel Figueroa. Si tratta di una fiaba, ed è uno dei film più amati dal pubblico messicano perché trae ispirazione dalle celebrazioni per il Giorno dei morti, un evento che ha profonde radici nella cultura popolare.
È un film inquietante, una commedia nera che racconta l’incontro tra Macario, un povero boscaiolo messicano, e la Morte. Macario è avvilito dalla fame e dall’impossibilità di poterla soddisfare. Non sopporta di vedere i suoi figli divorare ogni cosa, non sopporta di dover dividere con loro il cibo già così scarso. Sogna di avere un tacchino, uno di quei grassi tacchini con cui i ricchi imbandiscono le loro tavole, e sogna di mangiarselo da solo. La moglie, che guadagna qualche soldo facendo la lavandaia e desidererebbe vederlo felice, ruba un tacchino, lo cucina e lo dona a Macario. Lui, attento a non essere inseguito dai suoi figli, raggiunge il bosco per poterselo mangiare.
Strada facendo incontra tre personaggi che gli chiedono, ciascuno con le proprie lusinghe, di poter avere una metà del tacchino. Sono il Diavolo, Dio e la Morte. Macario resiste ai primi due, ma non alla Morte che, sorpresa dalla sua arrendevolezza, gliene chiede ragione. E Macario si spiega: con la Morte non si può discutere perché quando la si incontra ha sempre la meglio, ma se la Morte si fosse fermata a mangiare il tacchino, allora anche Macario avrebbe avuto il tempo per mangiare la sua metà. Metà tacchino è sempre meglio di niente e la sua fame era veramente grande. La Morte, divertita dalla disarmante spiegazione, lo premia con un dono e per Macario inizia una nuova vita piena di tavole imbandite. Ma quando, dopo molte avventure divertenti e rocambolesche, Macario viene condannato a morte e tutto sembra finito, Galvadón riporta la macchina da presa nel bosco, nel luogo in cui l’uomo aveva incontrato la Morte e ci mostra come tutto fosse finito già molto tempo prima. Macario è riverso e privo di vita. Davanti a sé c’è la sua metà del tacchino ancora intatta, mentre la metà spettante alla morte è stata mangiata.
In questa sorta di Settimo sigillo messicano, la Morte si prende gioco delle sue vittime ma, diversamente dal film svedese, la condizione del morire e quella del vivere non sono poi così distanti. La grotta in cui la Morte conduce Macario per mostrargli quanto sia effimera la vita, dove nell’oscurità brillano le tremule fiammelle delle vite degli Uomini, oltre ad essere un’immagine scenograficamente molto potente, ricorda la moltitudine di fiammelle votive che brillano nei cimiteri nel Giorno dei morti.
Stella Dallas di Henry King del 1925 è un film straordinario che ha avuto tre remake, il più noto è quello del ‘37 con Barbara Stanwyck. È tratto dal romanzo omonimo di Olive Higgins Prouty ed è interpretato da una grandissima Belle Bennett. Racconta una storia dolce e amara, a tratti molto divertente, con momenti di straziante malinconia. È la storia di Stella, una donna di umili origini e priva di cultura che sposa un uomo colto e raffinato. I due hanno una bambina, Laurel, ma sono troppo diversi e la vita li porta a vivere separati in due differenti città. Laurel vive con la madre che adora, ricambiata. La bambina cresce e diventa una giovane donna, intelligente e raffinata come il padre, ma continua a vivere con la madre, nonostante si renda conto dei suoi eccessi e della sua inadeguatezza. Non potrebbe mai abbandonarla perché prova per lei una profonda pena mista ad un’incontenibile tenerezza.
Stella vive per Laurel ed è orgogliosa di quanto assomigli al padre. Cerca di migliorarsi, di leggere, di vestirsi in modo elegante, ma la sua natura si impone: i suoi vestiti sono sempre troppo vistosi, si rende ridicola nel tentativo di esprimersi in modo raffinato.
Così Stella si arrende e per allontanare Laurel da sé, per consentirle una vita migliore insieme a suo padre, si finge peggiore di quanto non sia, si finge una madre dal comportamento riprovevole e costringe Laurel ad abbandonarla.
Il finale è tra i più belli della storia del cinema: è un omaggio alla settima arte, alla vita che vediamo scorrere sullo schermo.
Laurel si sposa con il giovane che ama. Il matrimonio è meraviglioso: lei vestita di bianco è incantevole, nella casa di suo padre ci sono fiori ovunque, la scenografia è perfetta. È come una fiaba. Le finestre non hanno tende, una mano caritatevole le ha sollevate. Fuori c’è Stella, sola, tra gente sconosciuta che osserva con curiosità e ammirazione la bellezza degli sposi e di tutto quello splendore. Ferma sul marciapiede, guarda l’amata Laurel attraverso la finestra, e piange e sorride ed è piena di orgoglio e di disperazione. Poi la macchina da presa si posiziona alle spalle di Stella e lei diventa una spettatrice, come il pubblico di Piazza Maggiore. La finestra diventa uno schermo, uno schermo dentro lo schermo, su cui noi guardiamo la vita di Stella mentre Stella guarda la sua vita.
Poi un poliziotto allontana i curiosi, e anche la macchina da presa si allontana e allontanandosi da Stella e dalla finestra, forma una sorta di cono di luce con un leggero pulviscolo, come fosse un proiettore.
La vita è il cinema e il cinema è la vita. Qualcuno nel buio di Piazza Maggiore potrebbe aver pianto.
Smog di Franco Rossi del 1962, è un film fino ad ora poco noto perché, dopo aver inaugurato il Festival di Venezia nel 1962, venne tolto dalla circolazione a causa di alcuni problemi finanziari della Titanus che lo aveva prodotto. Si tratta di un film insolito e bello, con tre grandi interpreti: Enrico Maria Salerno, Renato Salvatori e Annie Girardot. Racconta la storia di un avvocato romano, Vittorio Ciocchetti (Salerno), diretto in Messico per una causa di divorzio, che resta bloccato a Los Angeles a causa di problemi inerenti il suo volo. Le autorità aeroportuali gli rilasciano un permesso di soggiorno valido quarantotto ore con il quale può uscire dall’aeroporto. Inizia così il suo peregrinare nella Città degli angeli, la città alienante per eccellenza, non a misura d’uomo ma di automobile, con strade ampie e vuote, pozzi di petrolio, piscine costruite sul vuoto, case futuriste abbarbicate sulle colline. La Città dove già si parla di contrasto tra uomo e natura, dove si gioca a bowling, dove si incontrano persone ricche e stravaganti, italiani che vivono lì perché sono artisti, perché sono in cerca di fortuna o perché, come Gabrielle (Girardot), solo lì hanno potuto esprimere il proprio talento imprenditoriale.
Ciocchetti è un uomo presuntuoso, falsamente democratico, orgogliosamente consapevole che darà il proprio contributo al boom economico, alla rinascita dell’Italia. Lo farà con il suo lavoro e sposando una ragazza perbene, figlia di un politico influente. Un uomo con pochi dubbi e troppe certezze che non ama mettersi in discussione, che corteggia i ricchi e prende le distanze da chi si arrabatta per stare a galla. Un uomo meschino, profondo solo in superficie, che incontra persone vere, con problematiche esistenziali moderne. Un personaggio in bilico tra Antonioni e Risi, tra l’incomunicabilità e la fanfaroneria.
Amanti senza domani (One Way Passage) di Tony Garnett del 1932 con William Powell e Kay Frances. Potrebbe essere una commedia sofisticata e in effetti lo è, ma in realtà si tratta di qualcosa di diverso, di un film insolito per il cinema hollywoodiano degli anni ‘30. È una commedia triste che racconta un amore impossibile, una storia d’amore non vissuta e quindi destinata a varcare i confini dello spazio e del tempo e a vivere eternamente.
Lui è Dan ed è ricercato dalla polizia perché ha ucciso un uomo anche se, e questo occorre sottolinearlo, si trattava di una persona orribile. Il destino di Dan è il braccio della morte. Lei è Joan ed è consapevole di avere una malattia dalla quale non si può guarire. Due persone senza futuro, ciascuna ignara del segreto dell’altra. Si incontrano casualmente in un locale di Hong Kong, bevono qualcosa insieme e poi, allegramente, rompono i propri bicchieri lasciando lo stelo sul bancone del bar e gli steli, casualmente, si incontrano e si sovrappongono.
Entrambi si imbarcano sulla nave diretta a San Francisco. Il poliziotto che ha in custodia Dan stringe un patto con lui e lo lascia libero di muoversi. Il medico di Joan non vorrebbe che la giovane si affaticasse ma poi desiste, consapevole che il riposo non la salverà. I due si ritrovano sulla nave e i loro incontri diventano ogni giorno più belli e più necessari. Poi raggiungono San Francisco e a quel punto ciascuno conosce il segreto dell’altro senza però proferire al riguardo alcuna parola. Parlano invece di quando si rivedranno, di lì a pochi mesi, a capodanno, per brindare insieme ancora una volta.
Da una commedia hollywoodiana degli anni ‘30 ti aspetti che il cinema, nella sua onnipotenza, compia un miracolo narrativo. Non sarebbe stato difficile. Occorrevano due miracoli: che lui per qualche ragione venisse graziato, e che lei si sottoponesse ad una cura sperimentale in grado di guarirla. Sarebbe stato possibile. Sarebbe stato un simpatico film tra tanti, divertente e ottimamente interpretato. E invece no.
C’è una festa di capodanno. Ci sono persone che ballano, brindano e si divertono e ci sono due bicchieri che, pur non appartenendo a nessuno, casualmente si rompono sul bancone del bar e, casualmente, i loro steli si incontrano e si sovrappongono. Tutto è già accaduto. Non ci sono spiegazioni. È un film triste e lieve, ed è una bella storia d’amore.