di Massimo Lechi.
Ospite d’onore della nona edizione di Qumra (10-15 marzo 2023), Sir Christopher Hampton ha ammaliato la platea dell’auditorium del Museo d’arte islamica della capitale qatariota rendendosi protagonista di una delle masterclass più interessanti e stimolanti dell’evento industry organizzato dal Doha Film Institute.
Una lunga chiacchierata con lo storico e accademico americano Richard Peña, durante la quale il drammaturgo, sceneggiatore e regista inglese, due volte premio Oscar per Le relazioni pericolose (1988) e The Father (2020), ha ripercorso oltre cinquant’anni di carriera, tra approfondimenti sulle sue regie cinematografiche (Carrington, del 1995, in particolare) e ricordi delle sue preziose collaborazioni con personalità del calibro di David Cronenberg e David Lean.
Nell’intervista che segue Hampton ha ulteriormente approfondito alcuni dei temi toccati nell’incontro pubblico, a cominciare dall’infanzia in Egitto e dal progetto White Chameleon, a cui sta lavorando insieme al noto produttore Mohamed Hefzy.
Lei ha avuto un’infanzia da vero cosmopolita. Pensa che questo fatto abbia influenzato la sua scelta di diventare scrittore?
Penso di sì, decisamente. Uno dei requisiti per poter scrivere è quello di sentirsi un outsider. Tra il 1951 e il 1956 ho vissuto da bambino inglese ad Alessandria d’Egitto, in un contesto in cui quelli come me erano davvero molto pochi. La situazione politica allora era complicata, il conflitto tra l’Egitto e la Gran Bretagna stava montando e percepivi chiaramente il risentimento nei tuoi confronti per il fatto di essere cittadino britannico. Durante la crisi di Suez io e mia madre siamo scappati in Inghilterra e una volta lì ho iniziato a frequentare la scuola. Mio padre, che aveva visto il suo ufficio bombardato dalla RAF, disapprovava la crisi, ne era profondamente infastidito. In classe ripetevo le cose che sentivo a casa e questo mi ha creato non pochi problemi: venivo accusato di non essere abbastanza patriotico. Questo continuo cortocircuito in cui mi sono trovato, cioè l’essere inglese in Egitto e poi pro-egiziano in Inghilterra, è, credo, esattamente il tipo di educazione di cui ha bisogno uno scrittore.
Alessandria, all’epoca, era un crogiolo linguistico.
Tutti i miei compagni di scuola, quando avevo otto o nove anni, parlavano cinque lingue: arabo, inglese, francese, italiano e greco.
Il plurilinguismo che la circondava ha avuto un impatto su di lei?
Sì, in generale ha sicuramente stimolato il mio interesse per le lingue, e poi ha influenzato il mio percorso universitario. Per una persona interessata a vivere di scrittura, infatti, sarebbe stato più logico studiare la letteratura inglese, mentre io ho preferito virare sul francese e il tedesco. Una decisione che si è rivelata particolarmente fortunata.
Guardando soprattutto alla sua produzione drammaturgica è evidente quanto sia forte il suo legame con la cultura tedesca e austriaca…
Ho lavorato tanto a Vienna. Anche come regista, al Theater in der Josefstadt.
E poi con la Francia. Il suo primo successo teatrale, The Philanthropist, era ispirato a Molière.
Sì, era un ribaltamento del Misantropo.
Cos’è per lei la letteratura francese? E perché ne è sempre stato così attratto?
Direi perché mi è sempre sembrata più chiara e più adulta rispetto a quella inglese, specie il romanzo ottocentesco. Prendiamo Dickens e Balzac, per esempio: Dickens è un grande scrittore ma ha la tendenza a smussare gli angoli e a non toccare determinate questioni, mentre invece Balzac non si ferma davanti a nulla e va sempre in profondità. Rispetto molto questo spirito.
È una percezione condivisa da molti intellettuali e scrittori del Novecento. Penso al nostro Sciascia, che scriveva come Diderot gli avesse insegnato a pensare.
Assolutamente. Diderot è l’esempio perfetto di uno scrittore in grado di proporre una prospettiva originale su pressoché qualsiasi cosa: questioni sociali e religiose, teatro… Noi, in Inghilterra, abbiamo preso una strada molto diversa.
Tra tutti i drammaturghi inglesi della sua generazione, che sono partiti dal teatro per poi arrivare alla BBC e al cinema, e in alcuni casi alla regia cinematografica, lei è probabilmente il più aperto alla cultura europea continentale. Persino Tom Stoppard, che pure di nascita è un ebreo ceco, per decenni si è mosso principalmente all’interno del perimetro culturale e linguistico inglese.
È vero, ma già negli anni Settanta aveva scritto dei copioni per la televisione ambientati in Est Europa, cosa che poi ha ripreso a fare in anni più recenti a teatro. La Cecoslovacchia era l’altro suo mondo. E anche l’India, dove ha trascorso l’infanzia.
Ha mai pensato a scrivere qualcosa di simile al Leopoldstadt di Stoppard, per la scena o per il cinema?
Ho scritto una sceneggiatura basata sulla mia infanzia in Egitto, che ripercorre il periodo precedente a Suez. Si intitola White Chameleon e la produrrà Mohamed Hefzy.
È già in pre-produzione?
Non proprio. Per ora abbiamo iniziato un tentativo di casting. È una sfida: non è affatto facile mettere insieme un budget per un film del genere.
Il suo coinvolgimento è solo come sceneggiatore o ha intenzione anche di dirigerlo?
Mi piacerebbe occuparmi anche della regia perché la storia mi tocca da vicino, parla di me. In generale amo collaborare con i registi e avere qualcuno in grado di contribuire con un punto di vista più oggettivo. Ma in questo caso preferirei essere io a dirigere il film.
Le manca la regia? Il suo ultimo lavoro è del 2003.
A volte sì. Mi sono divertito così tanto su tutti e tre i film che ho diretto… E il motivo, secondo alcuni, tra i quali Stephen Frears, sarebbe che non sono un vero regista! (ride)
Trovo molto interessante che nessuno dei suoi film da regista sia basato su un suo testo drammatico. Non che sia una cosa insolita. Sono davvero pochi i drammaturghi che hanno diretto al cinema adattamenti dei loro successi teatrali: Stoppard con Rosencrantz e Guildenstern sono morti, Florian Zeller in anni più recenti… Persino Martin McDonagh, da regista cinematografico, ha sempre e solo lavorato su sceneggiature originali. Secondo lei perché?
Non saprei. A me piace che i testi che ho scritto vengano illuminati da altre intelligenze. Anche a teatro non li ho mai messi in scena per primo. Non sono per niente possessivo nei loro confronti. E inoltre, come ho detto, mi piace la collaborazione.
Quella più recente è proprio con Florian Zeller. Come descriverebbe il vostro lavoro insieme, su The Father per esempio?
È un processo molto armonioso. Per The Father Florian ha scritto una prima stesura in francese, alla quale io ho risposto con una versione inglese che conteneva alcune modifiche. Lui ha quindi mantenuto i miei suggerimenti in una terza versino in francese, cui ha fatto seguito una mia quarta versione, sempre in inglese. Dopodiché ci siamo incontrati e abbiamo trascorso una settimana ad analizzare e discutere il testo battuta per battuta, e il risultato finale è stata la sceneggiatura che lui ha filmato. Ci conoscevamo già da alcuni anni perché a Londra avevo tradotto sette dei suoi testi teatrali, quindi sapeva che io sapevo cosa stava cercando di dire.
Ha agito da filtro tra lui e la sua pièce?
Ho cercato di offrire un supporto tecnico. Florian era un debuttante, non aveva mai diretto un film. Ma già dopo un paio di giorni di riprese era chiaro quanto fosse perfettamente consapevole del nuovo mezzo.
È necessario raggiungere un certo livello di altruismo e mettere da parte l’ego per tradurre nel migliore dei modi un testo scritto da altri?
Tradurre un testo per la scena è un po’ come dirigerlo. È un lavoro accessorio, in un certo senso. Quando traduco cerco sempre di presentare l’originale il più precisamente e lucidamente possibile, rispettando le intenzioni dell’autore.
Mentre un adattamento permette di rielaborare in maniera più personale?
Sì, esatto. Una traduzione è una specie di pittura su vetro.
Crede che l’atteggiamento dell’industria nei confronti degli sceneggiatori sia cambiato rispetto a quando ha esordito nel cinema?
Penso che gli scrittori siano più rispettati in questo momento: hanno maggiori possibilità di imporsi e realizzarsi. Ma la strada è ancora lunga. Una cosa che l’industria dovrebbe fare, credo, è innanzitutto restituire agli autori le sceneggiature non prodotte entro almeno cinque anni dalla firma del contratto, contrariamente a quello che succede oggi.
Ma paradossalmente le condizioni, dal punto di vista creativo, sono più difficili. Vi muovete su un campo minato.
Lo so…