di Aldo Viganò.
Più di quarant’anni di carriera non equamente divisi tra palcoscenico, cinema e televisione, ma sempre vissuti da protagonista, mai disposta ad acquietarsi nella ripetizione di se stessa.
Monica Vitti (nome d’arte di Maria Luisa Ceciarelli, nata a Roma il 3 novembre 1931) è senza dubbio l’attrice italiana che ha attraversato con maggiore personalità la seconda metà del Novecento.
Negli anni in cui sugli schermi nazionali trionfavano le “maggiorate”, lei si stava ritagliando un ruolo di primo piano in teatro, dapprima (1953) diplomandosi all’allora prestigiosa Accademia d’Arte Drammatica di Roma e poi, sotto la guida del suo maestro Sergio Tofano, affermandosi sul palcoscenico e nella neonata televisione come attrice brillante. E fu proprio dietro le quinte teatrali che, dopo un primo incontro avvenuto in sala di doppiaggio (nel 1957, la Vitti prestò la sua voce roca a sensuale a Dorian Gray in Il grido), si consolidò il suo sodalizio con Michelangelo Antonioni, il quale la scelse come primattrice della Compagnia del Nuovo da lui diretta e poi scrisse per lei la parte della protagonista di L’avventura (1960) che la fece immediatamente assurgere a musa venerata e indiscussa di quello che allora si iniziò a chiamare il cinema dell’incomunicabilità.
Destino del mondo delle immagini: l’attrice che a teatro era stata calorosamente applaudita per la sua vérve comica e per la prorompente gioia di vivere, divenne una diva cinematografica soprattutto per i suoi silenzi, e per i lunghi e statici primi piani, appena rischiarati dal lampeggiare del luminoso sguardo in un volto imbronciato, oltreché per la mortificazione intellettuale di una sensualità pur sempre latente in un corpo mai scolpito dalle diete.
Abbandonandosi con totale fiducia alla guida del suo estetizzante pigmalione – dopo L’avventura, vennero in veloce successione La notte (1961), L’eclisse (1962), Deserto rosso (1964) – la Vitti si trovò a confrontarsi con alcune delle icone maschili più autorevoli del momento, quali Gabriele Ferzetti che era al culmine della sua aspirazione di essere riconosciuto come il Laurence Olivier italiano, o Marcello Mastroianni sempre disposto come lei a essere incandescente materia plasmabile nelle mani dei registi di cui aveva fiducia, o ancora il francese Alain Delon e l’inglese Richard Harris che a modo loro interpretavano l’immagine del nuovo attore creato dalle Nouvelles Vagues europee dei primi anni Sessanta. E da queste esperienze, la Vitti ne uscì sempre a testa alta, rivelandosi non solo interprete molto originale, ma anche attrice capace di costruire i propri personaggi sull’ossimorico crinale di un freddo erotismo o di una sensuale glacialità.
Sarà proprio a questo latente vitalismo “naturale” che, conclusasi la fase antonioniana (Il mistero di Oberwald sarà nel 1981 solo un revival ingenuamente al servizio del fascino dell’elettronica), Monica Vitti darà libero sfogo in quella che si può considerare la seconda fase della sua carriera cinematografica, quasi tutta costruita sotto i riflettori puntati dal suo nuovo compagno d’avventura artistica ed esistenziale, il direttore di fotografia Carlo Di Palma conosciuto sul set di Deserto rosso.
Senza mai negare completamente la lezione antonioniana (al cinema, l’attrice si definisce soprattutto nel suo rapporto con la luce), la Vitti diventa dapprima la Marilyn Monroe italiana (non a caso interprete sui palcoscenici nazionali di Dopo la caduta di Arthur Miller) e come tale amata da molti registi internazionali – Roger Vadim (Chateau en Suède, 1963), Joseph Losey (Modesty Blaise, 1966), Miklos Jancso (La pacifista, 1971), Luis Buñuel (Le fantôme de la liberté, 1974), André Cayatte (La raison d’Etat, 1978) -; ma quasi contemporaneamente s’impone anche come l’unica interprete femminile capace di inserirsi come protagonista nel vitale filone della commedia all’italiana, sino allora dominata dalla egemonia esclusivamente “al maschile” di attori del calibro di Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman e Nino Manfredi: tutti formatisi, come lei, sul palcoscenico.
Il personaggio chiave della sua nuova stagione d’interprete fu offerto alla Vitti nel 1968 da Mario Monicelli con La ragazza con la pistola, sulla scorta di una sceneggiatura scritta appositamente per lei da Rodolfo Sonego e Luigi Magni: illuminata dall’amorevole fotografia di De Palma, la Vitti s’impose definitivamente con questo film come attrice comica, spiritosa, capace di essere insieme umana e macchiettistica.
Per lei, fu subito il trionfo, ancora una volta anche internazionale. Un successo ben presto replicato con Amore mio aiutami (1969) di Alberto Sordi e soprattutto con Dramma della gelosia (1970) di Ettore Scola, destinato a essere infine sublimato in Noi donne siamo fatte così (1971) nel quale Dino Risi le offrì la possibilità di interpretare al meglio ben dodici personaggi diversi.
Gli anni Settanta vedono la Vitti impegnata soprattutto a consolidare il successo raggiunto, scatenandosi in Ninì Tirabusciò, la donna che inventò la mossa (1970, regia di Marcello Fondato) e L’anatra all’arancia (1975, regia di Luciano Salce), facendosi dirigere da Carlo di Palma in un trittico brillante (Teresa la ladra, 1973, Qui comincia l’avventura, 1975, e Mimì Bluette… fiore del mio giardino, 1976) e trovando anche un prezioso punto di riferimento in Alberto Sordi: da Polvere di stelle (1973) a Io so che tu sai che io so (1982).
Poi, con gli anni Ottanta, ancora una svolta: forse la più generosa anche se non certo la più felice della sua lunga carriera. Alla soglia dei cinquant’anni, la Vitti scopre in sé una inedita vocazione autoriale e pedagogica.
In questo nuovo ruolo, scrive sceneggiature, accompagna all’esordio cinematografico il suo nuovo compagno, il fotografo Roberto Russo, che sposerà nel 2000 e che la dirige in Flirt (1983) e in Francesca mia (1986). Debutta anche nella regia con un film (Scandalo segreto, 1990) che piace a Cannes ma poco agli spettatori; pubblica una autobiografia (Sette sottane, 1993) e anche un romanzo (Il letto è una rosa, 1995). Ma ormai il cinema (e ben presto anche la vita) degli ultimi decenni del Novecento non le apparteneva più. Anche il teatro era diventato un luogo da canto del cigno, consistente in una La strana coppia tutta al femminile, interpretata nel 1986 con Franca Valeri.
Per Monica Vitti, parafrasando un bel titolo di Vittorio Gassman, era ormai il momento in cui un grande futuro era tutto dietro le spalle.
Nel 1995, il Leone d’oro alla carriera attribuitole alla Mostra di Venezia ne fu la più tangibile testimonianza.
Ben presto vennero gli anni della solitudine nel buio dell’alzheimer, dove, con pochi momenti di lucidità e sempre amorevolmente assistita dal suo giovane marito, trascorse (si spera serenamente) i suoi ultimi trent’anni, nel corso dei quali non perse comunque il suo proverbiale buon umore, come quando reagì alla notizia del proprio suicidio, sparata in prima pagina, da Le Monde nel 1988, con l’ironico ringraziamento per averle allungato la vita.