di Guido Reverdito.
Due festival per la rinascita – Prima Cannes e in questi giorni Venezia. Due festival e due mo(n)di agli antipodi per urlare al mondo che il cinema è sopravvissuto alla pandemia e che gode di ottima salute non ostante i diciotto mesi di clausura forzata delle sale e un’industria – quella dell’audiovisivo – messa in ginocchio dall’emergenza sanitaria ma anche da scelte politiche a essa collegate non sempre condivisibili e il più delle volte incapaci di prevedere le catastrofiche conseguenze a catena destinate inevitabilmente a concausare.
Fedele all’ossessione congenita della grandeur che è il marchio di fabbrica di un intero paese, il Festival di Cannes aveva scelto di privilegiare la quantità rispetto alla qualità nell’edizione monstre andata in scena a luglio. Non solo con una quantità mai vista di film disseminati nelle varie sezioni, ma anche col ritorno in grande stile di parate di start sul red carpet, glamour a volontà, blockbuster in anteprima e un’evidente tendenza a soggiacere alle mode culturali del momento sia nelle scelte dei titoli in concorso che nell’assegnazione dei premi principali.
A questa dimostrazione vagamente machistica di testosterone festivaliero allestita però per ridare al cinema il ruolo di centralità spettacolare che la pandemia gli ha scippato, Venezia ha risposto con un approccio del tutto diverso. Ovvero un mix inedito di cinema di qualità firmato da grossi nomi del panorama internazionale, attenzione alla ritualità dell’evento con la sua tradizionale liturgia di epifanie lagunari e una ricchissima presenza di cineasti italiani. Il che potrebbe sembrare una sorta di replica polemica al parziale ostracismo inflitto da Cannes al cinema di casa nostra. Col solo Nanni Moretti a fare da isolato portabandiera dei colori nazionali.
Mai come in passato si era vista una lista tanto prestigiosa di autori in concorso in uno dei grandi festival più importanti e influenti a livello internazionale. E se non basta sottolineare che il film di apertura è stato l’attesissimo nuovo film di Pedro Almodovar Madres paralelas, i nomi di Paolo Sorrentino (non meno atteso il suo È stata la mano di Dio), Paul Shrader (The Card Counter), Jane Campion (The Power of the Dog), Pablo Larraìn (Spencer, su Lady D), Mario Martone (Qui rido io, su Eduardo Scarpetta) e i gemelli D’Innocenzo (America Latina) la dovrebbero dire lunga sulle scelte di qualità operate dal direttore Barbera a livello di selezione di titoli in concorso.
Gli italiani in gara
Cinque titoli sui ventuno in concorso. Non accadeva dal lontano 1984. Tre su nove nel panorama delle proiezioni fuori concorso e due in quella sempre più dinamica e innovativa della sezione Orizzonti. Per non parlare dei cinque documentari su sei proposti in quella sempre stimolante delle Proiezioni Speciali. Dal lontano 1984 non si vedeva una rappresentanza tanto nutrita di autori italiani in laguna. Con quattro su cinque grossi calibri e un quinto – Michelangelo Frammartino – a fare da contraltare appartato al quartetto di nomi da copertina.
Tra questi il titolo più atteso, come ormai accade da tempo sia coi lungometraggi di finzione che con le fortunate e seguitissime serie TV, è di certo È stata la mano di Dio. Dopo il dittico berlusconiano di Loro, con questa incursione anche dolorosa nella pagina più nera della propria esistenza a metà tra romanzo di formazione e immersione autobiografica, Paolo Sorrentino torna al cinema ripartendo da quella Napoli mercuriale che da anni mancava nelle sue sceneggiature. Ambientato nella seconda parte degli anni ’80, il film ruota intorno alla figura di un impacciato diciassettenne impegnato a trovare il proprio posto nel mondo la cui vita viene sconvolta all’improvviso da due eventi epocali destinati a segnarlo per sempre. Da una parte l’approdo a Napoli di Maradona, capace di risvegliare in lui e nell’intera città un orgoglio smarrito da tempo. E dall’altra un evento fatale (modellato sulla tragica scomparsa dei genitori di Sorrentino, morti per intossicazione da monossido di carbonio nella propria casa di vacanze a Roccaraso durante un fine settimana in cui il regista allora sedicenne non era col resto della famiglia perché il padre gli aveva concesso per la prima di volta di andare a seguire una partita in trasferta del Napoli). Apparentemente salvato da Maradona, ma segnato da questo terrificante uno-due esistenziale che lo porta a maturare in fretta per togliersi dall’impasse tra la confusione della perdita e l’inebriante libertà del sentirsi vivi per miracolo, in un costante gioco a rimbalzo tra i toni della tragedia e quelli salvifici della commedia, il protagonista del film – distribuito e coprodotto da Netflix che lo programmerà sulla propria piattaforma in autunno – riesce a trovare una via d’uscita dalla catastrofe totale attraverso il ricorso all’immaginazione.
I gemelli trentatreenni Damiano e Fabio D’Innocenzo hanno al proprio attivo solo due film. Dopo il fulminante esordio de La terra dell’abbastanza, i loro nomi – spesso citati semplicemente come i fratelli D’Innocenzo a ricalcare molti altri binomi familiari di grande successo nel mondo del cinema internazionale e non – si sono imposti in maniera perentoria con Favolacce, titolo pluripremiato non solo dalle nostre parti ma anche alla Berlinale. Con America Latina – previsto in uscita nelle sale a gennaio dell’anno prossimo – tornano a lavorare con Elio Germano, qui impegnato nei panni di un dentista di Latina padre di famiglia modello e professionista integerrimo la cui routine scandita dagli affetti e dall’abnegazione quasi calvinista nel lavoro viene sconvolta da un evento imprevedibile che si verifica nello scantinato della casa in cui vive con moglie e due figlie e che lo costringe a rimettere in discussione la propria identità. Sospeso tra indagine sociologica e atmosfere tipiche del thriller, in questo loro terzo film i gemelli D’Innocenzo tornano a raccontare una storia di famiglia, di senso di appartenenza, di sangue ma anche delle profondità inesplorate dell’inconscio che abitano misteriose nel più intimo di ciascun essere umano. Anche in creature dolci e apparentemente esemplari come il dentista protagonista della loro discesa agli inferi.
Dopo Il sindaco del rione sanità, Mario Martone arriva in concorso in laguna senza praticamente staccare la spina dall’universo brulicante della famiglia De Filippo. Qui rido io è infatti una sorta di anomalo biopic dedicato a Eduardo Scarpetta, una delle figure più iconiche e rappresentative non solo della cultura popolare napoletana in senso lato, ma anche di quella napoletanità intesa come approccio gioioso alla vita e alle modalità di goderne al meglio gli innumerevoli frutti. Di origini molto umili, Scarpetta si affermò fin da giovane grazie al proprio talento comico e alla maschera di Felice Sciosciammocca, diventando in breve tempo l’autore e attore teatrale per eccellenza sulla scena partenopea e sfornando un successo dietro l’altro grazie a cui in città era venerato come una sorta di tardivo viceré borbonico. Una vita e un personaggio (che il film di Martone ricostruisce come se fosse una sorta di immaginario romanzo autobiografico mai scritto da Scarpetta stesso) che negli Stati Uniti non esiterebbero a descrivere come larger than life. Un’esistenza fuori da ogni canone, esibita in maniera spudorata in una Napoli che ai lustrini della Belle Époque di pochi privilegiati contrapponeva una miseria cenciosa da pulcinella atavicamente affamati (ovvero proprio quella grossa fetta di pubblico che lo adorava e che lo convertì in un dio in terra, come fu chiaro durante il funerale del 1925 quando l’intera città vi prese parte piangendolo come solo un sovrano amatissimo può essere pianto nel giorno della dipartita). Autore di 120 testi teatrali e attore di primissimo piano in ben 13 film dell’era del muto, ma anche padre di 9 figli (3 legittimi e 6 no) avuti da una serie di donne diverse e riuniti a vivere in una sorta di comune-gineceo che anche l’epica dei figli dei fiori di fine anni ’60 avrebbe fatto fatica ad accettare come modello di famiglia destrutturata, nel 1904 – al culmine di un successo strabordante – Scarpetta decise di osare il non osabile. Ovvero scrivere e allestire a teatro una parodia in dialetto napoletano della tragedia di Gabriele D’Annunzio La figlia di Iorio. Un atto di hybris che gli costò carissimo con conseguenze e faticosi strascichi giudiziari che il film di Martone ripercorre nella sua seconda parte seguendo lo schema canonico della vita che precipita dalle stelle alle stalle. Un crollo verso l’abisso che solo l’intervento di un deus ex machina del calibro di Benedetto Croce permise a Scarpetta di evitare riuscendo a sostenere che la sua era stata solo una brutta parodia e non un caso di plagio come invece pretendevano l’inferocito vate pescarese, i suoi legali ma anche il meglio dell’intellighenzia partenopea dell’epoca.
Quello di Gabriele Mainetti è un caso molto simile a quello dei fratelli D’Innocenzo: sei anni fa il suo Lo chiamavano Jeeg Robot lo aveva convertito in poco tempo in autore di culto da brillante esordiente che era. Il tutto grazie soltanto a un film troppo sfuggente e allo stesso tempo geniale per essere paragonato a qualsiasi altro prodotto emerso in Italia nel periodo. Quando si era iniziata a spargere la voce di una sua opera seconda che giocava di nuovo a ibridare i generi (questa volta cercando di trovare una forma di convivenza possibile tra il cinema bellico, l’horror della deformità spettacolarizzata e l’universo del circo), la curiosità e l’attesa per l’evento erano cresciute in un lampo in maniera parossistica. Poi però è arrivata la pandemia e tutto è precipitato. E Freaks Out (questo il titolo del film), girato in studio e in esterni per una durata record di oltre dodici mesi e più volte dato per morituro per esaurimento di fondi, non ci ha messo molto a diventare un oggetto misterioso almeno tanto quanto le creature deformi e diverse che ne sono le protagoniste. Nei lunghi mesi che hanno fatto da corollario al lockdown della scorsa primavera il suo regista e produttore (nonché sceneggiatore insieme all’inseparabile amico e compagno di merende Nicola Guaglianone) per almeno tre volte lo aveva annunciato in uscita in sala senza mai smettere di rifiutare il corteggiamento delle piattaforme che gli avrebbero permesso di recuperare i grossi investimenti fatti per portarlo a termine. Il film è adesso annunciato in uscita il 28 ottobre prossimo e se altri incidenti di percorso non ne impreziosiranno il calvario distributivo con qualche nuova tegola, lo si potrà finalmente vedere sugli schermi di grande dimensione per cui è stato pensato. Soprattutto dopo tanto parlarne a vuoto senza che nulla di concreto trapelasse. Salvo che si tratta di una bizzarra vicenda di quattro creature molto particolari nella loro diversità (un mangiatore di scorpioni vivi, un uomo lupo dotato di forza sovrumana, un fachiro con talenti da calamita e un’acrobata elettrica che accende lampadine soltanto prendendole in mano) che nella Roma del 1943 si esibiscono in un circo cencioso fino a quando l’arrivo in città dei Nazisti li obbliga giocoforza a darsi alla fuga per evitare di essere sacrificati sull’altare dell’eugenetica hitleriana.
Schiacciato tra questi quattro pesi massimi, Il buco di Michelangelo Frammartino (quinto film italiano in concorso ufficiale e suo terzo a undici di distanza da Le quattro volte, amatissimo dai cinefili innamorati della rarefazione per immagini) non deve però essere sottovalutato. Non fosse altro perché il suo è un lungometraggio che ha poco a che vedere con qualsiasi altro prodotto in circolazione e decisamente non in linea con le mode del momento. Nato a Milano da genitori calabresi, con Il buco Frammartino torna a parlare di quella sua Calabria selvaggia e ancestrale che vive un’esistenza atemporale sospesa tra il ritmo lento di una Natura ancora incontaminata e la presenza dell’essere umano che ne insegue il mistero più recondito. Il buco racconta la storia di un gruppo di giovani speleologi piemontesi che nel pieno del boom economico dei primi anni ’60 e mentre tutto punta verso le speranze del Nord in arrestabile ascesa, decidono di partire alla volta del Sud più arretrato e remoto e scoprono in Calabria quella che poi sarebbe stata catalogata come la terza grotta più profonda del pianeta. Ovvero l’Abisso del Bifurto, nel complesso montuoso del Pollino. Un film che è la storia di quell’impresa ma anche una potente metafora dell’urgenza di immergersi nelle profondità del proprio io in un’epoca in cui la superficialità della comunicazione usa e getta e dell’esibizionismo della propria vacua esteriorità sembrano la sola ragione di vita di milioni di vittime di un progresso falso e illusorio. Frammartino invita a lasciare la superficie bidimensionale del nostro oggi per scendere là dove il buio di uno sfregio nel cuore della Terra profondo più di 700 metri diventa immagine e occasione di un viaggio interiore alla (ri)scoperta di ciò che si preferisce ignorare.
Gli “speciali” che non concorrono
Se però si decide di lasciare il frastuono del concorso e lo stress da competizione, anche nelle sezioni laterali del festival in laguna la rappresentanza italiana brilla per qualità oltre che per quantità. Particolarmente ghiotto il terzetto di tre dei nove film che verranno proiettati come eventi fuori concorso.
Su tutti spicca La scuola cattolica di Stefano Mordini, autore capace di muoversi a proprio agio in generi molto diversi e con alle spalle titoli sempre interessanti quali Provincia meccanica, Acciaio, Pericle il nero e il recentissimo Lasciami andare. Alla base c’è uno dei casi letterari più clamorosi e chiacchierati dell’ultimo decennio. Ovvero l’omonimo romanzo monstre (più di 1300 pagine!) con cui Edoardo Albinati vinse il Premio Strega nel 2016 e che tra autobiografia, ricostruzione storica e fiction cercava di indagare sulle possibili ragioni che portarono dei ragazzi della Roma bene a macchiarsi di uno dei delitti più efferati di una stagione già di per sé tumultuosa e violenta come la seconda parte degli anni ’70. Ovvero il massacro del Circeo, di cui furono ideatori ed esecutori materiali due ex-alunni di una nota scuola di impostazione cattolica cui la ricca borghesia romana dell’epoca affidava i propri rampolli, convinta che quel tipo di istruzione e un ambiente protetto li potesse mettere ai ripari dai rischi insiti nel mondo di fuori. Affidandosi a un cast di straordinaria potenza evocativa che aggrega il meglio di diverse generazioni di attori di casa nostra, il film di Mordini ripercorre sinteticamente il percorso scelto da Albinati per scandagliare a fondo l’humus in cui germogliò il seme di un odio cieco che, alimentato da distorte farneticazioni politiche e da irrefrenabili smanie di supremazia, convertì due rappresentati della meglio gioventù di un’istituzione di élite in carnefici sanguinari. Un viaggio nel cuore di tenebra di una società – quella del benessere e del privilegio in cui due dei tre aguzzini del Circeo erano cresciuti protetti da genitori incapaci di accorgersi della ferocia latente che covava nei propri figli – che non sembra in grado di fare i conti con se stessa ma soprattutto di comprendere in anticipo l’alchimia potenzialmente distorta di un’educazione tradizionale e conservatrice messa a contatto con una società in ebollizione politica da quasi un decennio.
A chiudere l’intera rassegna in laguna sarà invece Il bambino nascosto, altro titolo italiano che i co-produttori di Rai Cinema e BiBi hanno per mesi ostinatamente protetto dall’approdo rassicurante sui palinsesti delle piattaforme in streaming conservandolo per l’uscita in sala agli inizi di novembre. Diretto da Roberto Andò e tratto dal proprio romanzo omonimo uscito l’anno scorso (come già era accaduto per Viva la libertà che era la trasposizione del suo romanzo Il trono vuoto), il film racconta la storia di un timido e introverso professore di pianoforte nel conservatorio napoletano di San Pietro a Majella che un giorno si ritrova in casa un bambino figlio di una famiglia di camorristi residenti nell’attico del suo stesso palazzo, il quale si rifiuta di rivelare le ragioni che lo hanno portato a scappare di casa ma soprattutto di far ritorno all’universo disumano del clan cui gli è capitato in sorte di appartenere. Incontro di due solitudini diversissime per natura ma contigue per la volontà di fuga dal mondo in cui non si riconoscono, il film di Andò è insieme denuncia dell’ennesima infanzia negata dalla vocazione coatta al crimine e cronaca di un’educazione sentimentale pilotata da un uomo (con la faccia di uno straordinario Silvio Orlando) che svezzando un adolescente ribelle e introverso scopre a sua volta di non essere anaffettivo e di avere corde interiori capaci di vibrare anche al di fuori della musica.
E Silvio Orlando – accanto per la prima volta a Toni Servillo (quest’anno uno e trino in laguna visto che gigioneggia nei panni di Eduardo Scarpetta e si conferma attore feticcio di Sorrentino) – lo ritroviamo nel terzo dei film italiani proiettati fuori concorso. Ovvero Ariaferma, scritto e diretto da Leonardo Di Costanzo che, dopo i fortunati L’intervallo e L’intrusa, qui condensa l’esperienza di molte visite a istituti di pena sul territorio nazionale e conversazioni avute sia con detenuti che con guardie carcerarie per proporre una riflessione accorata non tanto sul tema quanto mai attuale dello stato in cui versano le carceri di casa nostra, quanto piuttosto sull’effettiva costruttività del sistema penitenziario in sé preso come progetto di rieducazione alla socialità. Girato interamente in Sardegna, Ariaferma ruota intorno alla vicenda vagamente surreale e kafkiana di un vecchio carcere ottocentesco nel quale, pur essendo avviato alla dismissione, per una serie di lungaggini e incidenti burocratici a catena, i trasferimenti dello sparuto manipolo di agenti in servizio risultano congelati sine die costringendoli a convivere con una dozzina di detenuti non meno spaesati nell’attesa di conoscere il proprio destino.
Documentare per non scordare
Se la compagine tricolore dei lungometraggi di finzione non bastasse a imprimere un potente marchio di made in Italy al cartellone di questa 78esima edizione del festival di Venezia, nella sezione Fuori concorso e tra le Proiezioni speciali l’Italia fa la parte del leone con la bellezza di nove documentari accomunati dalla volontà di (ri)disegnare ritratti per immagini e rievocazioni di grandi figure del mondo della musica, del cinema e della fotografia.
La musica domina sovrana. Con DeAndré#DeAndré. Storia di un impiegato Roberta Lena ripercorre con Cristiano De André (che per due anni di fila ha portato in tour in giro per lo stivale una riproposizione dal vivo del concept album Storia di un impiegato scritto dal padre con Nicola Piovani e Giuseppe Bentivoglio nel 1973) la storia di un rapporto d’amore profondo tra padre e figlio ma soprattutto esplora una volta di più le mille sfaccettature di una personalità multiforme come quella di Fabrizio De André. E lo fa pedinandone il figlio in quel lungo giro d’Italia musicale in una sorta di inedita (auto)biografia musicale in cui la memoria storica si alterna a quella privata per disegnare il ritratto di un uomo che a sua volta è stato la sintesi compiuta in musica di un’era.
Giuseppe Tornatore alza ancora di più l’asticella. Col suo Ennio sceglie invece di misurarsi con la figura di Ennio Morricone, il due volte premio Oscar con all’attivo più di cinquecento colonne sonore e senza dubbio il musicista più popolare e prolifico del XX secolo, oltre che ovviamente il più universalmente noto. Partendo da una lunga intervista/conversazione che il maestro romano gli aveva regalato tempo addietro ma anche affastellando con arte le testimonianze di molti dei cineasti e degli artisti che hanno avuto la fortuna di lavorare con lui, con Ennio – strutturato come un romanzo-spettacolo infarcito di sequenze di film da lui musicati – Tornatore offre al pubblico un ritratto di Morricone lontano dai clamori del palcoscenico, scegliendo di indagarne le pieghe meno note della personalità e rivelando al pubblico quali fossero stati gli elementi scatenanti a livello di ispirazione per temi divenuti poi celeberrimi (su tutti quello di Sostiene Pereira legato al battere ritmato di alcuni scioperanti su bidoni di latta o quello de Il buono, il brutto e il cattivo fatto a imitazione del verso de coyote ascoltato per caso).
E di grande musica si parla anche in Ezio Bosso. Le cose che restano, documentario che Giorgio Verdelli ha dedicato a una delle figure più atipiche e originali del panorama artistico di casa nostra degli ultimi vent’anni. Il racconto è affidato allo stesso Bosso, che ci fa entrare nel suo mondo e nel suo immaginario, come in un diario per immagini sonore nel quale le parole si alternano alla sua seconda voce, la musica, mentre le testimonianze di amici, familiari e collaboratori come Gabriele Salvatores, Silvio Orlando e Paolo Fresu, contribuiscono a tracciare un mosaico accurato e puntuale della sua figura. Un musicista – scomparso un anno fa – difficile da incasellare negli spazi angusti dei generi codificati, capace di passare dai Carmina Burana al rap, che il documentario racconta affrontando con grande e rispettosa leggerezza anche i momenti forti di una vita sospesa tra l’estenuante lotta con la malattia che lo ha consumato in maniera impietosa e con gli strumenti che si prefiggeva di dominare grazie a una padronanza assoluta della tecnica.
Ma c’è spazio anche per un paio di riflessioni del cinema documentaristico che indaga su se stesso rievocando figure diversamente importanti nel panorama produttivo di casa nostra. Con Django & Django Luca Rea propone al pubblico di ripensare alla figura di Sergio Corbucci, grande regista del passato spesso trascurato dalle nostre parti ma ritenuto da Quentin Tarantino “il secondo miglior regista di western italiani” (come afferma un personaggio nel suo recente C’era una volta a Hollywood) e capostipite di quella fioritura di western alla amatriciana che partì come parodia del genere per eccellenza del cinema USA trasformandosi anche grazie a personalità come la sua in un cinema capace di ergersi a metafora di molte delle idee che circolavano nell’Italia degli anni Sessanta. Usando materiali d’epoca mai visti prima, testimonianze (su tutte quelle di Franco Nero, l’attore preferito da Corbucci) ma anche i Super8 inediti realizzati sui set dei suoi film e immagini degli anni in cui il cinema italiano sapeva parlare a tutto il mondo, il documentario di Luca Rea è un omaggio fatto con la sensibilità di oggi a un grande autore del passato attraverso il suo accostamento a un monumento del cinema dei nostri anni quale Quentin Tarantino.
Se Aristide Massacesi è un nome che non dice granché alla maggior parte dei lettori, forse il suo pseudonimo Joe D’Amato fa accendere qualche lampadina in più. Ma chi era veramente questo campione degli eteronimi e delle ibridazioni tra generi apparentemente del tutto estranei gli uni dagli altri? In America lo considerano un genio dell’horror faidate, in Francia un maestro dell’erotismo fatto con classe, mentre da noi viene spesso declassato al ruolo degradato di reuccio del porno di grana grossa. Ma dietro ai troppi pseudonimi usati come maschere per confondere il perbenismo di facciata di un’Italietta inquinata dalla censura si cela un artigiano vecchio stile, capace di realizzare oltre duecento film ricoprendo contemporaneamente i ruoli di produttore, regista, autore, direttore della fotografia e persino operatore di macchina. Appunto un artigiano del cinema, come amava definirsi lui, capace di spaziare dagli spaghetti western al post-atomico, dal decamerotico all’eros patinato, dal porno kolossal fino all’horror gore. Guidato dall’estetica dell’estremo e sorretto da un’innegabile capacità tecnica, Aristide Massaccesi ha sempre cercato di trascinare lo spettatore oltre ogni limite, attenendosi a una sorta di credo trinitario divenuto una sorta di marchio di fabbrica. E cioè: stupire, scioccare, scandalizzare. A questa figura poliedrica e multiforme viene reso un doveroso omaggio dal documentario Inferno rosso. Joe D’Amato sulla via dell’eccesso con cui Manlio Gomarasca e Massimiliano Zanin ne raccontano con obiettività la spericolata vita all’insegna della provocazione fatta con metamorfica genialità creativa.
Il convitato di pietra
Poteva infine forse mancare una riflessione sul fattore che ha condannato le sale cinematografiche alla chiusura forzata per quasi diciotto mesi, infierendo su un settore già in crisi prima dello scoppio della pandemia? Venezia 78 ha deciso di non farsi mancare nulla. Ed ecco quindi due documentari che affrontano l’impatto della malattia globale sia sull’universo stesso del cinema festivaliero che su una delle realtà geografiche che lo scorso anno pagarono uno dei prezzi più alti in termini di vittime e di diffusione di contagi.
La Biennale di Venezia: il cinema al tempo del Covid è una sorta di inconsueto diario filmato, prodotto dalla Biennale di Venezia con Rai Cinema e Istituto Luce Cinecittà, sul dietro le quinte dell’edizione 2020 della Mostra del Cinema, svoltasi con le limitazioni imposte dai protocolli di sicurezza dovuti appunto alla pandemia. Si tratta di un’opera su commissione che la Biennale stessa decise di far realizzare chiamando a farlo Andrea Segre, documentarista e cineasta di lungo corso con molti titoli importanti alle spalle anche nel campo del cinema di fiction. Quella dello scorso anno era sicuro che sarebbe stata un’edizione unica del festival all’interno della sua lunga storia proprio per l’enorme coraggio di averla organizzata nel cuore di una pandemia globale per dare un importante segnale al mondo e convincere anche i più scettici che il cinema come sistema non si era piegato del tutto sotto i colpi possenti del morbo ed era ancora possibile godersi la visione di film dal vivo senza correre eccessivi rischi. Il documentario di Andrea Segre — che ha fatto da apripista al festival in una sorta di aperitivo prima del film evento di Pedro Almodovar — è appunto un insieme di appunti filmati in presa diretta di un pezzo inatteso della storia della Mostra e del cinema, e ha come protagonisti uomini e donne che il regista incontrava via via che i giorni della mostra si susseguivano e coi quali si interrogava sul tipo di bizzarra e anomala esperienza che tutti stavano vivendo.
Se si pensa a qualche immagine simbolo della prima e violentissima ondata che nel marzo del 2020 colpì l’Italia come primo paese occidentale per poi diffondersi in tutto il mondo, una su tutte descrive senza pietà quei momenti, sintomo di una cicatrice che probabilmente rimarrà indelebile nella nostra coscienza: ovvero le bare stipate nei camion dell’esercito che uscivano da Bergamo per portarle a essere interrate altrove. Una zona, il Bergamasco, messa duramente alla prova, ma capace di ritrovare nella forza dell’unione il senso di una comunità che non si piega di fronte all’infierire del morbo e trova il coraggio per risorgere dalle ceneri di quello che potrebbe somigliare a un bollettino di guerra più che a un insieme di statistiche del Consiglio Superiore di Sanità. Il documentario Le 7 giornate di Bergamo di Simona Ventura (sì, proprio quella Simona Ventura, qui all’esordio dietro la macchina da presa dopo decenni di TV di vario genere e qualità) ricostruisce quella triste epopea di morte e sofferenza, concentrandosi soprattutto sull’arrivo a Bergamo degli Alpini che in soli sette giorni riuscirono a vincere la scommessa di costruire un ospedale Covid da 140 posti letto divenuto poi celebre in tutto il mondo. Una struttura che proprio quando la situazione diventava ancora più critica poté dare ossigeno a una città alla quale mancava il respiro come se avesse lei stessa contratto il virus. Il documentario è la storia degli uomini che lavorando giorno e notte permisero la realizzazione di un’opera destinata a salvare decine di vite umane. Girato nel marzo 2020 durante i sette giorni della costruzione dell’ospedale Covid alla Fiera di Bergamo, nella sua seconda parte il documentario ritorna in città nel maggio 2021, nei giorni in cui la struttura veniva smontata lasciando in eredità a Bergamo e al resto del mondo un messaggio carico di ottimismo e di speranza per il futuro.