di Renato Venturelli.
Sembrerebbe l’anno buono per Cody Calahan, regista canadese di horror come “Antisocial” o “Let Her Out”, che quest’anno è riuscito di colpo ad attrarre l’attenzione internazionale con “Vicious Fun” (al festival di Sitges) e con questo “The Oak Room” che ha entusiasmato molti al Torino Film Festival.
Lo spunto e l’ambientazione sono del resto accattivanti. Un bar che sta chiudendo in una sera di tormenta, un giovane che entra per ripararsi dal freddo poco prima che il barista fermi definitivamente la porta, i due che cominciano un dialogo teso, mostrando di avere vecchi conti in sospeso da regolare. Poi uno dei due comincia a raccontare un’altra vicenda avvenuta in un bar poco prima della chiusura, sempre in una notte fredda e nevosa. E a poco a poco comincia la mise en abyme della narrazione e delle sue trappole, con lo spettatore che vede visualizzati in una serie di veri o finti flashback i vari episodi rievocati, inventati, comunque raccontati in uno spazio-tempo sempre più tortuoso.
L’esasperato manierismo del procedimento è sottolineato dagli stessi personaggi, che ostentatamente giocano con le teorie della narrazione, in modo che lo spettatore si senta elevato a complice del meccanismo intellettualistico pur restando all’interno di tradizionalissimi e popolarissimi bar della provincia nordamericana.
Ma se il procedimento per un po’ affascina, poi il gioco comincia a diventare fin troppo compiaciuto nonostante il crescendo di tensioni e violenze: e il film resta sempre più intrappolato nella sceneggiatura ad effetto costruita dall’esordiente Peter Genoway, che su tensioni horror, maschere e notti aveva già imperniato i suoi corti “Masks” e “Night Moves”.
Qualcuno cita inevitabilmente i giochi metanarrativi venuti di moda nella scia degli esempi cinematograficamente alti di Tarantino, ma la questione resta sempre quella di un dialogo di tanti anni fa. Quando, in pieni anni ’90, Tarantino disse: “il pubblico televisivo di oggi è molto sofisticato e può seguire narrazioni continuamente sbalzate in avanti e all’indietro tra diversi personaggi”. Ma De Palma gli rispose: “se il pubblico è abituato a forme complesse di narrazione, continua a non esserlo nel considerare il film come esperienza visiva…”.