di Aldo Viganò.
È il momento dei “noir” all’orientale.
Mentre, sulla scia degli Oscar (decisamente esagerati) ottenuti da “Paraside”, viene recuperato anche in Italia il sopravvalutato “Memorie di un assassino” del sudcoreano Bong Joon-ho (un film vecchio ormai di diciassette anni), ecco che arriva sui nostri schermi anche il decisamente più interessante “Il lago delle oche selvatiche”: un thriller cinese che si svolge nella famigerata provincia di Wuhan (quella del coronavirus) e che ripropone in modo personale (con immagini esteticamente molto elaborate) un tessuto narrativo che sembra pur indirettamente derivare dai polizieschi Warner degli anni Quaranta.
In una città in riva al lago – caratterizzata dall’ingiustizia sociale, dalla violenza per bande, dalla prostituzione e dall’invadente presenza di una polizia corrotta – si aggira nelle strade sudice e tra bar che sembrano favorire la diffusione dei virus, una fauna assortita e dal comportamento sempre al limite delle più elementari norme di legge, la cui assenza pratica favorisce quell’organizzazione per bande che il film sapientemente sintetizza attraverso la messa in scena di tre pubbliche “assemblee” parallele e separate.
In spazi sovraffollati e molti simili tra loro, la prima è l’assemblea dei ladri, i quali, dopo di aver seguito una lezione sul furto delle motociclette, si spartiscono, poco democraticamente e anche litigando, sino a spararsi addosso, il territorio della città nel quale agire. Ma c’è anche quella dei poliziotti (quasi tutti professionalmente mal preparati), che decidono la strategia migliore per mettere le mani su chi ha involontariamente ucciso uno di loro (e sulla taglia che è stata posta sulla sua testa). E c’è, infine, anche la riunione dei commercianti che, per decidere la spartizione delle licenze necessarie per aprire un negozio, non riescono a trovare di meglio che ricorrere al sorteggio.
È appunto sullo sfondo di questi simulacri – insieme seriosi e parodici – della democrazia che si svolge la vicenda drammatica che innesca il tessuto narrativo del film.
Braccato sia dai rappresentanti dell’ordine, sia dai cacciatori di taglie, nonché dai suoi non pochi nemici personali, l’autore involontario dell’uccisione del poliziotto escogita allora il piano per uscire da questa morsa che si stringe sempre più. La sua idea è quella di farsi denunciare dalla ex-moglie, che non vede da alcuni anni, in modo che lei possa incassare l’ingente somma della ricompensa, lasciando a lui il più leggero compito di cercare in seguito un’altra via di fuga per evitare la condanna. Il protagonista non sa, però, che sua moglie è già confidente della polizia e che pertanto non potrà riscuotere un solo yen per la sua cattura. A informarlo della non prevista situazione giunge comunque ben presto, inviata dal proprio pappone, una intraprendente prostituta, che in abito rosso sgargiante e cappello da sole (o ombrello trasparente, sopra la testa) lavora nell’oasi rappresentata dalla riva del lago dove nuotano e nidificano delle metaforiche oche selvatiche.
Tra sparatorie e fughe nei vicoli sporchi inizia così l’avventura, apparentemente semplice e lineare, sulla quale Diao Yinan (già fattosi notare in Occidente con il precedente “Fuochi d’artificio in pieno giorno” che nel 2014 vinse l’Orso d’Oro a Berlino) costruisce un film esplicitamente di “genere”, ma sotteso anche dall’intento implicito di offrire un quadro realistico delle condizioni polico-sociali della Cina attuale.
Pur penalizzato dalla proiezione in una copia che poco valorizza i contrasti cromatici della sua elaborata fotografia, “Il lago delle oche selvatiche” è un film sotteso da un autentico piacere di fare del cinema, coinvolgendo molti personaggi. Un film fondamentalmente semplice nella sua struttura narrativa, ma abitato da esseri umani complessi. Un noir a suo modo avvincente (c’è anche una inedita – almeno per il cinema cinese – scena di sesso hard), anche se raramente capace di veramente emozionare a causa della programmatica negazione di un dichiarato coinvolgimento emotivo. Comunque un’opera molto personale, arricchita dalla presenza di attori dotati di una autentica forza espressiva, anche se dalla recitazione non sempre valutabile per qualità a causa della profonda differenza linguistica e di un doppiaggio dalla sonorità (forse anche dalle valenze significanti) non proprio attendibili.
IL LAGO DELLE OCHE SELVATICHE
(Nanfang cheshan de juhui – Cina-Francia, 2019) regia e sceneggiatura: Diao Yinan – fotografia: Dong Jingsong – musica: B6 – scenografia: Liu Qiang – costumi: Liu Qiang e Li Hua – montaggio: Kong Jiinlei e Matthieu Lancau. interpreti e personaggi: Hu Ge (Zhou Zenong), Gwei Lun-mei (Liu Aiai), Liao Fan (cap. Liu), Wan Qian (Yang Shujun), Qi Dao (Hua Hua), Huang Jue (Yan Ge), Zeng Meihuizi (Ping Ping), Zhang Yicong (Xiao Dongbei), Chen Yonghomg (cliente). distribuzione: Movies Inspired – durata: un’ora e 53 minuti