CAIRO INTERNATIONAL FILM FESTIVAL 2019 – Panoramica araba

Di Massimo Lechi.

Nonostante la vocazione globale rilanciata con stile e innegabile successo dal nuovo presidente Mohamed Hefzy, il Cairo International Film Festival continua a suscitare grande interesse presso gli addetti ai lavori e i cinefili anche in quanto vetrina del cinema arabo. Insieme all’El Gouna Film Festival sul Mar Rosso e alle Journées Cinématographiques de Carthage in Tunisia, la manifestazione cinematografica nel cuore della capitale egiziana è infatti il luogo ideale per scoprire i titoli più importanti prodotti ogni anno in quella immensa area culturale che va dalle coste occidentali del Maghreb al Golfo Persico.

La quarantunesima edizione del CIFF (20-29 novembre 2019) non ha fatto eccezione. Di seguito pertanto alcune considerazioni critiche su cinque film arabi di assoluto interesse, accolti con particolare favore sia dalla stampa accreditata sia – cosa decisamente più significativa – dal pubblico che ha riempito l’Opera House e gli altri cinema della città nei dieci giorni dell’evento.

 

All This Victory di Ahmad Ghossein

Presentato al Cairo nella competizione internazionale, a poche settimane dall’anteprima mondiale alla Settimana della Critica di Venezia 2019, All This Victory di Ahmad Ghossein è un’opera prima ambiziosa e diseguale che riesce, nonostante le evidenti ristrettezze del budget, a offrire uno spaccato efficace del Libano contemporaneo, delle sue pene e delle sue contraddizioni. La situazione, escluse alcune virtuosistiche sequenze introduttive, è statica: nel 2006, in piena guerra tra Israele ed Hezbollah, durante un precario cessate il fuoco, un giovane prossimo all’espatrio va a cercare il padre rimasto nel proprio villaggio e lì, una volta riprese le ostilità, finisce nascosto – e intrappolato – in una casa con un gruppo di anziani.  Per larga parte del film Ghossein lascia fuori campo la guerra, soffermandosi sui volti e i corpi dei suoi personaggi-ostaggi e affidando a una curatissima colonna sonora il compito di far entrare nel racconto la minaccia della guerra (rappresentata anche da un commando israeliano che, a un certo punto, occupa i piani superiori della casa in cui si trova il protagonista). Ne scaturisce la piccola storia di un banale assedio, che però, con lo scorrere dei minuti, riesce ad allargarsi nell’affresco di un Libano in conflitto permanente, ferito e scosso, incapace di superare i traumi del passato – tema peraltro centrale nella produzione di quasi tutto il cinema libanese attuale – e di iniziare un percorso di dialogo e pacificazione. Un paese finito da tempo in un vicolo cieco, e dal quale sembra ormai impossibile persino la fuga.

 

A Son di Mehdi M. Barsaoui

Tra i trionfatori del quarantunesimo Cairo International Film Festival con ben tre riconoscimenti (l’Arab Cinema’s Horizons Award, il Salah Abu Seif Prize e l’UNFPA Award), A Son ha brillato per forza narrativa e qualità della recitazione. Ma anche per la capacità dimostrata dal trentenne Mehdi M. Barsaoui, regista e sceneggiatore tunisino con studi al DAMS di Bologna, di affrontare le storture della società tunisina attraverso un dramma familiare di grande impatto, senza però mai cedere né ai facili ricatti emotivi né alla demagogia spicciola. Film spiazzante, A Son, ambientato nell’estate 2011 e costruito sul conflitto che esplode all’interno di una coppia borghese tunisina (la rivelazione Najla Ben Abdallah e il sempre convincente Sami Bouajila, miglior attore nella sezione Orizzonti di Venezia 2019) al capezzale del loro unico figlio, gravemente ferito a seguito di un attentato terroristico e disperatamente bisognoso di un trapianto di fegato. Un racconto che si alimenta drammaturgicamente di segreti, di incomprensioni e soprattutto di dilemmi morali, sullo sfondo di un paese sfregiato dalla corruzione e dalla violenza. E un altro piccolo tassello del ricco mosaico del cinema tunisino contemporaneo.

 

Beirut Terminus di Elie Kamal

Ancora il Libano, ma in una chiave molto diversa da quella del film di Ghossein. Beirut Terminus, premiato con l’Arab Cinema’s Horizons Award per il miglior documentario, è infatti un viaggio nella memoria libanese a metà strada tra l’indagine archeologica e il diario intimo. Il talentuoso Elie Kamal ripercorre con lenti movimenti di macchina le linee ferroviarie ormai abbandonate del Libano, svelando allo spettatore un paesaggio spettrale, riarso dal sole e occasionalmente virato in rosso, mentre la voce fuori campo rievoca frammenti di memoria personale. Da una periferia disseminata di binari morti e depositi abbandonati, vestigia di una prosperità perduta, fino alla Beirut tentacolare e minacciosa, divisa in settori, distretti e quartieri che rispecchiano il settarismo della società, quella di Kamal finisce con l’imporsi come un’ambiziosa mappatura delle rovine e dei conflitti del tormentato paese dei cedri. Opera dal passo lento e dalle atmosfere assorte, Beirut Terminus è un’esperienza visiva impegnativa ma gratificante, un documentario sperimentale da inserire a buon titolo nello stesso filone di ricerca di Ghassan Halwani e del suo indimenticabile Erased, Ascent of the Invisible (2018).

 

Between Heaven and Earth di Najwa Najjar

Premiato per la miglior sceneggiatura nella competizione internazionale, Between Heaven and Earth, terzo lungometraggio della palestinese Najwa Najjar, è sì un’altra indagine tra le pieghe della memoria, ma stavolta di pure finzione. Protagonisti sono Tamer e Salma (Firas Nassar e Mouna Hawa, già apprezzata in Libere, disobbedienti, innamorate di Maysaloun Hamoud), una giovane coppia dei territori occupati che, dopo cinque anni di incomprensioni, si mette in viaggio per andare a sbrigare le pratiche per il divorzio oltre il checkpoint israeliano. A far saltare i loro piani è però la scoperta che, secondo i computer, il padre di lui, un attivista morto decenni prima in circostanze oscure, risulta ancora in vita e, soprattutto, con un figlio di nome Tamir. Najjar parte da questa rivelazione sconcertante per dare avvio, all’interno di una struttura narrativa che fonde con discreta abilità le convenzioni del road movie con quelle del dramma sentimentale, a una dolorosa – e doverosa – ricerca della verità e della riconciliazione (di fatto tra Tamer e il proprio passato e la propria moglie). Il risultato è nel complesso convincente, e ha il grande pregio di non scivolare mai nella retorica e nel patetismo.

 

Let’s Talk di Marianne Khoury

Ma il titolo in concorso più amato dal pubblico della capitale egiziana è stato certamente Let’s Talk, il personalissimo documentario attraverso cui Marianne Khoury, nipote del celebre Youssef Chahine, ha voluto riflettere su di sé e sulle donne della propria famiglia. Dialogando con la giovane figlia Sara – anch’essa filmmaker – la regista ricostruisce la storia del grande clan levantino cui è sempre stata legata e che, tra molte libertà, lo zio aveva portato sullo schermo nei suoi lavori più marcatamente autobiografici, a cominciare da Alessandria perché? (1978). Spezzoni di questi classici del cinema egiziano si alternano a filmini di famiglia e a logore fotografie, e dalla rievocazione della vita quotidiana della borghesia araba cosmopolita nell’Egitto degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta, emergono figure di nonne, madri e figlie dalle personalità fortissime, costrette a lottare ogni giorno con le convenzioni sociali del loro tempo. Khoury ha un coraggio e una voglia di raccontarsi evidenti, e non si ferma di fronte a nulla – depressioni, malattie, divorzi, fallimenti. Il suo approccio generoso e caotico alla regia documentaristica e il suo tentativo “impossibile” di far dialogare tra loro quattro generazioni di donne alla fine convincono e conquistano: Let’s Talk è un film destinato a restare.

 

 

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