di Massimo Lechi.
Vincitore dell’Audience Award, You Will Die at 20 è stato senza ombra di dubbio il lungometraggio più apprezzato del settimo Ajyal Film Festival (18-23 novembre 2019), la manifestazione cinematografica organizzata nella capitale del Qatar dal Doha Film Institute.
Un vero e proprio trionfo per Amjad Abu Alala, filmmaker sudanese nato e cresciuto a Dubai, a poche settimane dal Premio Luigi De Laurentiis conquistato alla Mostra di Venezia e dai riconoscimenti ricevuti ai festival di El Gouna in Egitto (miglior film di finzione) e Cartagine in Tunisia (tre premi, tra cui quello per la miglior opera prima). Ma soprattutto una nuova conferma del momento d’oro del cinema del Sudan che, in concomitanza con la cacciata del dittatore Omar al-Bashir, è riuscito a imporsi nel 2019 nel circuito festivaliero grazie anche al magnifico documentario Talking About Trees di Suhaib Gasmelbari.
La storia di Muzamil, il ragazzo al quale, appena nato, viene predetta da un santone una morte certa al compimento del ventesimo anno, ha messo d’accordo tutti. Quello del talentuoso Abu Alala è un romanzo di formazione potente, un film attento a evitare le trappole del facile pauperismo e, cosa non certamente secondaria, un attacco frontale alla superstizione e al fondamentalismo religioso.
L’origine letteraria del tuo film non viene quasi mai messa in evidenza. Che cosa ti ha attratto del racconto di Hammour Ziada?
Quando nel 2015 morì mia nonna, mi recai da Dubai a Khartoum per il funerale in compagnia di una cugina. Durante il viaggio lei piangeva e piangeva, ininterrottamente. E io cercavo di consolarla, mentre leggevo il racconto contenuto in Sleeping at the Foot of the Mountain, che è appunto sul dolore e sul modo in cui le persone fanno i conti con la perdita. La tristezza, per via dell’umore fuori e dentro di me in quel preciso momento, è stato quindi il primo elemento del libro a catturarmi, a farmi sentire qualcosa per il racconto. Successivamente ho scoperto gli altri piani di lettura – quello sufi e quello sociale – e allora ho deciso di svilupparlo in una sceneggiatura.
A quanto si legge in giro, tu sei nato e cresciuto a Dubai e hai sempre vissuto molto lontano dal Sudan. Credi che gli scritti di Ziada e la realizzazione del film ti abbiano aiutato a capire meglio il tuo paese?
Be’, non è proprio così… Tra Dubai e Khartoum ci sono solo tre ore di volo e, in generale, i sudanesi sono molto attaccati al loro paese – anche se vivono a Los Angeles. Non voglio rivendere la storia di me che grazie al film ritorno in patria in cerca delle mie radici: sarebbe una bugia, un copiare quello che fanno i registi tunisini e marocchini nati in Francia. Con la mia famiglia si andava in Sudan tre volte all’anno ogni anno. E inoltre, tra il 1991 e il 1996, ho vissuto a Madani, senza mai tornare a Dubai. Il film mi ha fatto tornare a quel periodo, a quei luoghi in cui ho trascorso parte dell’infanzia e dell’adolescenza. Non è una questione di ritorno alle radici, bensì di ricordi.
Eri in Sudan all’inizio dell’era di Omar al-Bashir.
Sì, lui è salito al potere nel 1989, due anni prima che ci trasferissimo lì. Da bambino ho avuto la possibilità di assistere ai cambiamenti avvenuti nel paese. Il Sudan un tempo era comunista e molto liberale nei costumi, finché all’improvviso alle donne venne imposto il velo e quelle che si rifiutavano venivano picchiate con dei frustini fatti con le code delle mucche. Ricordo di aver visto una coppia di ragazzi che si tenevano per mano portati via in macchina dalla polizia… La situazione era davvero brutta negli anni Novanta.
L’atmosfera che hai creato nel film rispecchia questi tuoi ricordi degli anni Novanta, ma potrebbe anche corrispondere al presente. C’è una certa ambiguità, in fondo.
Sì, potrebbe essere sia gli anni Novanta sia i Duemila. Il punto è il modo in cui la gente in Sudan ha vissuto e vive la religione. Da noi anche i Sufi, che sono pacifici e molto spirituali, ricorrono alla mediazione di figure carismatiche, ai santoni. Forse il film ti avrà ricordato qualcosa del cristianesimo?
Be’, si tratta sempre di strutture patriarcali.
Esattamente! Ho voluto puntare il dito su quello, e non solo sul governo. E’ inutile che ti nascondi dietro al regime islamico, usandolo come scusa, quando sei tu stesso il regime islamico.
La storia del tuo film – per tornare a quanto dicevo poc’anzi – è dunque fuori dal tempo. Tanto il protagonista Muzamil quanto lo spettatore finiscono con l’accorgersi che c’è un prima e un dopo solo quando entra in scena il personaggio di Sulaiman, che vive dei ricordi di un Sudan libero che non esiste più. Un Sudan perduto che però, paradossalmente, sembra quasi futuristico.
Sì, è vero. Inoltre c’è un’altra cosa: il film ha un numero nel titolo, il 20. Eppure, una volta che si entra nella storia, il numero scompare. La madre di Muzamil non sa esattamente quale sia l’età di suo figlio: costruisce questa sorta di tomba intorno a sé e tiene il conto facendo dei segni sul muro, ma nessuno può essere sicuro che lo stia facendo nel modo giusto. E Muzamil stesso lo ignora. Quando il padre finalmente ritorna e chiede quanto tempo sia passato si sente rispondere: i giorni che sei stato via, contali!
E’ stata una scelta consapevole da parte tua?
Quando ancora stavo sviluppando la sceneggiatura in giro per festival con vari mentori, tutti insistevano perché il momento storico preciso dell’azione fosse reso evidente allo spettatore. E invece rispondevo che io per primo non ero interessato a saperlo!
Questa assenza di coordinate temporali precise dà un senso piuttosto forte di intrappolamento, di prigionia quasi. Muzamil per primo è prigioniero della propria fede e della propria condanna, e così tutte le persone che gli stanno vicino. E il film diventa un’allegoria del Sudan, prigioniero della dittatura.
Mi piace molto la parola che hai usato, “prigioniero”… Noi sudanesi a un certo punto siamo finiti prigionieri, nonostante il nostro sia sempre stato un popolo molto libero. E in parte anche il nostro regime era molto diverso da quello di altri paesi islamici come l’Iran o l’Arabia Saudita, perché la nostra cultura non è mai stata contro le donne o contro l’arte. Non c’è infatti un solo discorso pubblico di al-Bashir con non sia finito con lui che ballava – musica islamica, ok, ma sempre musica.
Nel film mostri proprio dei vecchi filmati di gente che balla con abiti occidentali.
Sì, quelli erano i vecchi bar sudanesi degli anni Settanta e Ottanta, che poi vennero tutti chiusi. In realtà, prima di al-Bashir, ci fu un altro dittatore, il comunista Nimeiry, che tre anni prima di perdere il potere annunciò l’instaurazione di un regime islamico… Peccato però che lo fece da ubriaco perso! (ride) Dopo l’annuncio tutto il whisky e il cognac che c’erano nel paese furono versati nel Nilo, e così da allora ci sono delle canzoni sul fatto che i nostri pesci sono sempre ubriachi perché hanno bevuto troppo!
Parliamo della tua regia. Dal punto di vista dello stile, You Will Die at 20 è un film sobriamente realistico. Ci sono però degli inserti onirici, delle sequenze molto spiazzanti attraverso le quali sembri quasi voler rompere il flusso della narrazione.
E’ una questione di cui ho discusso a lungo con i miei amici registi e i miei collaboratori. Tutti mi consigliavano di attenermi a un realismo lineare, ma nonostante l’ambientazione fosse plausibile l’idea di un bambino a cui viene predetto che morirà a vent’anni era piuttosto fuori dall’ordinario. C’era nella storia una dimensione sufi, più spirituale, e perciò ho voluto aggiungere più livelli anche da un punto di vista visivo. Ma del resto anche i miei cortometraggi precedenti avevano degli elementi di surrealismo e dei momenti onirici.
E’ una scelta che ha conferito al film un aspetto quasi fiabesco – a tratti, se non altro.
Mi piace il cinema realista, ma da regista non mi appartiene. Ho sempre avuto un certo surrealismo in testa – forse perché sono cresciuto scrivendo poesie.
Non volevi sentirti intrappolato in un unico registro, insomma.
No, infatti.
A un certo punto del film, attraverso la figura dell’anziano anticonformista, tu introduci al tuo protagonista il cinema. Le immagini che Muzamil vede a casa di Sulaiman innescano il suo processo di maturazione, tanto che il cinema finisce con l’apparire come un vero e proprio strumento di liberazione. E questo è un punto che ti lega al tuo amico Suhaib Gasmelbari e al suo straordinario documentario Talking About Trees.
Sì, mi fa piacere che citi Suhaib: sia io che lui avevamo da tempo intenzione di riportare il cinema in Sudan. Il personaggio di Suleiman, che non è nel racconto di Ziada e che ho aggiunto in piena libertà, avrebbe potuto essere un ingegnere, per dirne uno. Il fatto che io lo abbia reso un filmmaker penso rifletta la nostra fame di cinema, il desiderio di aprire per i nostri connazionali una finestra sul mondo.
Il 2019 è stato l’anno del Sudan, grazie al successo strepitoso di Talking About Trees e di You Will Die at 20. Tutti questi riconoscimenti che stai ricevendo in giro per il mondo e l’inedita attenzione per il tuo paese ti fanno sentire come un pioniere?
Oh, decisamente! E’ la prima volta in oltre vent’anni che ci sono film sudanesi con volti sudanesi – volti neri con lingua araba – e storie sudanesi nei grandi festival. Ma il nostro successo sarà in grado di garantire che l’anno prossimo qualcosa di simile accada di nuovo? Non ne sono sicuro.
Dipenderà da voi.
No, noi abbiamo già lottato con il nostro destino per fare i nostri film e rovesciare la dittatura. Ora abbiamo bisogno di aiuto per costruire un sistema. Il cinema sudanese è appena nato e la mia unica paura è che la sua crescita possa essere troppo lenta.