di Renato Venturelli
Dopo “Piazza Vittorio”, Ferrara gira un altro film “piccolo”, leggero, in piena libertà, con molti tratti comuni anche rispetto a quel “Tommaso” dove la fiction si mescola all’autobiografia ma sempre muovendosi tra le strade abituali e quotidiane. Tutti film girati in mezzo alla gente, dove l’esibizione della troupe e della cinepresa non è un vezzo ma è uno dei punti fermi di questo immergersi nel mondo, nella sua ricchezza e nella sua complessità. E cercando un’immediatezza di cinema che si colloca sul fronte opposto rispetto alle pulsioni estetizzanti di tanti docufilm.
Il proiezionista del titolo è Nick Nicolaou, un esercente newyorkese che dice di essere nato e cresciuto in un villaggio di Cipro dove cristiani e musulmani convivevano tranquillamente, per poi trasferirsi da ragazzino a New York insieme alla sua famiglia, immergendosi in un crogiolo travolgente di popoli e di culture. Lì comincia a lavorare presto nei cinema di quartiere, diventa prima proiezionista, poi direttore di un circuito di sale che proietta “nudies” e appartiene a un’anziana signora greca sfuggita al nazismo: e man mano che sviluppa competenze, capisce come muoversi, compra una sala e la rivende poi a caro prezzo al circuito nascente dei cineplex, passa attraverso tutte le fasi gloriose e poi sempre più difficili dell’exploitation. Nelle sue sale si proietta tutto, dai film porno ai film sperimentali, rischia di ritrovarsi ghettizzato per la politica delle majors, riesce a rilanciarsi quando gli viene concesso “American Sniper” di Clint.
Nick Nicolaou è un personaggio famoso del cinema newyorkese, un indipendente che ama il cinema in sé, da Pasolini e Bertolucci al porno, uno che si dichiara ostile ai blockbuster ma solo in quanto rivale dello strapotere delle majors, perché quando poi ottiene di proiettarli nelle sue sale è felice di vedere i ragazzini divertirsi e gioire davanti allo schermo. Uno sempre pronto a proiettare nelle sue sale i film dei giovani autori, anche se ultimamente dice di poter sopravvivere solo chiedendo loro “un contributo” di otto-diecimila dollari (mica poco, ma siamo a New York…).
“The Projectionist” è naturalmente un elogio dell’uomo di cinema che si è sempre battuto dal basso, salvando piccole sale di quartiere, difendendo una dimensione artigianale attraverso l’immersione completa negli aspetti commerciali del cinema (attualmente dice che la “testa” finanziaria del suo circuito è a Cipro, dove i parenti gli tengono tutta la contabilità), una specie di Roger Corman dell’esercizio. E inevitabilmente è anche un elogio più generale di un cinema sempre e comunque immerso in una realtà marginale ma viva, strettamente legato all’epoca d’oro degli anni ’70 tra taxi driver e driller killer: e soprattutto di New York come luogo di una cultura senza barriere e senza confini, di tolleranza e di convivenza, un’altra lezione su come il cinema possa essere fisicamente un modo per vivere in mezzo agli altri e al mondo, in nuovo orizzonte della verità del set raggiunto attraverso un’essenzialità ma anche una totale disponibilità di scrittura.