di Aldo Viganò.
Il tema della ricerca del padre, anche al fine di tagliare definitivamente il cordone ombelicale al quale il protagonista è ancora legato, era già al centro dell’ottimo e sottovalutato “Civilttà perduta” e, pur non in modo sempre esplicito, si può dire che attraversi tutto il cinema di James Gray (da “Little Odessa” a “I padroni della notte”, da “Two Lovers” a “C’era una volta a New York”), caratterizzandone di fatto, come una ossessione, la ricorrente tensione tematica di una filmografia, gestita cinematograficamente con un linguaggio “per aspera ad astra”. Questa volta, però, il cinquantenne regista newyorkese non si limita a portarlo in primo piano, perché pone questo tema come fulcro narrativo intorno al quale far ruotare tutto il film, non nascondendo l’ambizione di nobilitarlo con il supporto di un dichiarato riferimento letterario, tanto grande quanto infine indotto ad appesantirne intellettualisticamente i risultati.
“Ad astra” si propone, infatti, in modo dichiarato come una libera rilettura futuribile di “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad o, se si preferisce, come una rivisitazione in chiave fantascientifica di “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola. Però è evidente che qualcosa non ha funzionato in riferimenti tanto alti. Inducendo di fatto il regista a privilegiare il tema trattato (la ricerca del padre, appunto) invece che la libera individuazione del linguaggio più idoneo per dare una vitale forma cinematografica all’argomento prescelto.
Quello che ne risulta è così un film fondamentalmente verboso e ripetitivo, in fin dei conti noioso nonostante l’impegno attoriale di Brad Pitt e gli sforzi di Gray per vivacizzarlo spettacolarmente.
Seguendo la falsariga narrativa già utilizzata da Conrad e da Coppola, Gray vi racconta il lungo viaggio alla ricerca di una figura paterna, che assume via via sempre più la connotazione di una immagine dal potere divino. E lo fa spostando l’itinerario avventuroso dal fiume (congolese o vietnamita che sia) allo spazio siderale (dalla Luna a Marte, sino a Nettuno), citando “2001, odissea nello spazio” di Kubrick, o se si preferisce “Solaris” di Tarkovski.
Niente da dire, liberissimo. Fedele alla tradizione del cinema classico, Gray sa benissimo che sullo schermo tutto è possibile. Ma tutti i suoi film precedenti testimoniano che egli sa anche come queste possibilità aumentano solo se il discorso viene sorretto dalla consapevolezza formale, capace di offrire ai contenuti narrativi la forza di autentici significati.
Ma è proprio questa consapevolezza che finisce col mancare in “Ad astra”.
Come accade in “Civiltà perduta”, il cui protagonista doveva essere proprio Brad Pitt (sviato allora da altri impegni, mentre qui egli è nella duplice veste di interprete e di co-produttore), Gray si sforza di porre al centro del suo discorso cinematografico l’essere umano; ma finisce con essere prigioniero della lussuosa scenografia nella quale dà forma alle ossessione interiori del suo personaggio, indirizzando il film ora verso soluzioni orrorifiche ora sull’impervio terreno delle metafore psicanalitiche.
Il risultato è un film lussuoso ma fondamentalmente sbagliato, incapace come risulta di dare autentica forza drammatica a quella ricerca del padre, destinata infine a rivelarsi (e non per colpa degli interpreti) ben poca cosa rispetto alle attese.
Infatti, è soprattutto l’incontro-scontro con la potenza di Dio padre che trova qui difficoltà ad esprimersi in modo compiuto, perché infine il protagonista non si trova di fronte neppure al farneticante solipsismo di Marlon Brando, ma solo a un pur ottimo Tommy Lee Jones, privato però di ogni fascino divino. Segno di una mancata ispirazione stilistica più che della povertà del discorso narrativo. Testimonianza dei limiti oggettivi di una grande ambizione sfuggita di mano al suo stesso autore.
La via per dar vita a questo viaggio “ad astra” era ovviamente aspra e difficile. Ma questa volta si ha l’impressione che James Gray abbia fallito nella sua ambizione proprio sul piano di quel linguaggio che pur sottendeva le sue opere precedenti, i cui migliori risultati si vedono comunque a tratti pure in questo film, anche se solo in sequenze fondamentalmente a se stanti come quella dell’attacco dei pirati sulla luna o della lotta con i primati che hanno preso possesso dell’astronave incontrata dal protagonista nel viaggio verso Marte.
Sequenze che testimoniano come l’arte cinematografica appartenga ancora alle corde del regista e che pertanto “Ad astra” può essere considerato un film sbagliato solo per effetto della difficoltà di far coincidere l’ampiezza delle sue ambizioni con i limiti oggettivi sul piano dell’autonomia dei risultati.
AD ASTRA
(Ad astra, Usa – Brasile – Cina, 2019)
regia: James Gray – sceneggiatura: James Gray e Ethan Gross – fotografia: Hoyte van Hoytema – musica: Max Richet – scenografia: Kevin Thompson – costumi: Albert Wolsky – montaggio: John Axelrad e Lee Haugen.
interpreti e personaggi: Brad Pitt (maggiore Roy McBride), Tommy Lee Jones (H. Clifford McBride), Ruth Negga (Helen Lantos), Liv Tyler (Eve McBride), Donald Sutherland (colonnello Thomas Pruitt), John Ortiz (generale Rivas)
distribuzione: 20th Century Fox – durata: due ore e 4 minuti