di Aldo Viganò.
Dalla rossa Emilia Romagna della sua gioventù (già sovente rivisitata da Pupi Avati anche in chiave horror e a ritmo di jazz), a un Veneto cupamente democristiano, avvolto in un minaccioso silenzio e dominato da un cupo clericalismo che si nutre di misteri, nonché di paure e incubi sempre ai limiti del sacrilegio: dal fascino del corpo della donna all’ostia della prima comunione calpestata.
Ambientata all’inizio degli anni Cinquanta, l’azione si apre con una forte sequenza di terrore che visualizza come, in una stanza popolata da bambole, una bambina viene divorata in culla da un essere mostruoso, nel quale il quattordicenne Carlo (Filippo Franchini), sospinto da una cugina suora e dal sacrestano del paese (Gianni Gavina), è indotto a riconoscere un suo coetaneo che già la comunità tutta del paesino lagunare (Lio Piccolo) identifica con il Diavolo: nato dalla congiunzione della sua ricca e potente madre (Chiara Caselli) con un verro. E per questo lo uccide con un colpo di fionda.
A indagare sullo scabroso caso – politicamente complicato dal fatto che la madre del ragazzo morto, dopo di essere stata una generosa benefattrice della Dc locale, ora minaccia di avversare pubblicamente quella parte politica (guidata allora da De Gasperi) nel caso che l’inchiesta scopra ciò che non deve scoprire – viene incaricato un apparentemente remissivo funzionario del Ministero di Grazia e Giustizia (Gabriel Lo Giudice), il quale si trova così a ricoprire per l’ormai ultra ottantenne Pupi Avati un ruolo molto simile a quello che più di quarant’anni fa Lino Capolicchio (qui solo impegnato in un “cameo” in abito talare) aveva interpretato in La casa dalle finestre che ridono. Come il protagonista di quel giovanile horror già impregnato di suggestioni cattoliche, anche il nuovo venuto si trova così coinvolto in un’inchiesta che lo coinvolge sempre di più: sia professionalmente che intimamente.
Il Male per Pupi Avati (che nel 1952 aveva esattamente la stessa età di Carlo, il suo giovane assassino) è sempre stato un qualcosa di molto concreto. Come il Diavolo per i cattolici. Un Male che evoca il peccato e affonda le proprie radici nelle superstizioni paesane (per questo gli horror di Avati hanno sempre una matrice campagnola) e che infine è destinato a trionfare o almeno a ridurre a silenzio la voce di chi gli si oppone.
È quanto accade, appunto, anche in “Il signor Diavolo”, nel quale Avati ripropone – soprattutto in ruoli di contorno – non solo molti attori a lui cari, ma anche numerosi temi e molte caratteristiche del suo cinema migliore.
Il fascino per una struttura narrativa di “genere”, innanzitutto. Sempre però gestita nel modo trasparente e direttamente comunicativo del cinema classico. Dando pertanto vita a un cinema lontano dal montaggio frenetico, dai facili effetti visivi e dai superficiali colpi di scena di tanto horror giovanilistico contemporaneo.
Più per intima convinzione che per età, Pupi Avati si conferma, anche in questo “Il signor Diavolo”, uno dei pochi registi italiani che amano raccontare per immagini, la cui forza narrativa sia in grado di affondare anche nella cronaca contemporanea (ogni tanto nel film sembra di sentire qualche eco evocativo del caso di Emanuela Orlandi), ma soprattutto nella consapevolezza dell’autonomia linguistica del cinema.
Anche se poi è proprio questa autonomia che a lungo andare finisce col risultare un po’ soffocata dalla scelta a priori (questa sì, alquanto didascalica), di un timbro fotografico sempre cupo e dolente, nel quale Avati e i suoi collaboratori avvolgono tutta la vicenda, come se in essa il Male avesse già definitivamente trionfato e a nulla dovesse inevitabilmente condurre la ricerca del protagonista sulle sue manifestazioni e le sue cause.
Avvolto in questa ossessione a-cromatica, e sotteso così dal senile bisogno registico di mettere in scena innanzitutto l’idea che sottende le cose piuttosto che la complessità del loro accadimento, al film finisce cioè col mancare una forza visiva autenticamente dialettica.
Questo rischia inevitabilmente di appesantire alquanto un’opera pur sempre molto personale, capace di testimoniare ancora una volta la presenza nell’attuale cinema italiano di un regista di tutto rispetto, che sa ancora parlare del passato con la nostalgia del presente e coniugare insieme le giovanili pulsioni sessuali con le indotte ossessioni religiose in grado di condizionare il comportamento dei personaggi e di motivarne i comportamenti. Sino alla quasi inevitabile sequenza finale, sottesa da un pessimismo che con i tempi che viviamo appare ormai inevitabile.
IL SIGNOR DIAVOLO
(Italia, 2019) regia e soggetto: Pupi Avati – sceneggiatura: Pupi, Antonio e Tommaso Avati – fotografia: Cesare Bastelli – scenografia: Giuliano Pannuti – effetti speciali: Sergio Stivaletti – montaggio: Ivan Zuccon. Interpreti e personaggi: Gabriel Lo Giudice (Furio Momenté), Filippo Franchini (Carlo Mongiorgi), Cesare S. Cremonini (padre Carlo), Massimo Bonetti (giudice Malchionda), Alessandro Haber (padre Amedeo), Gianni Gavina (Gino, il sacrestano), Lino Capolicchio (don Dario Zanini), Eva Antonia Grimaldi (madre di Paolino), Chiara Caselli (Clara Vestri Musy), Andrea Roncato (dottor Rubei) – distribuzione: 01 Distribution – durata: un’ora e 26 minuti