di Antonella Pina
Henry King nacque nel 1886. Parliamo quindi di un regista d’altri tempi e non soltanto in senso letterale. Era un uomo elegante, gentile, con un profondo senso morale e una grande sensibilità verso gli esseri umani. Aveva trascorso i primi anni della sua infanzia in una fattoria a Christianburg e deve essere stato un periodo felice perché la dolcezza del paesaggio rurale è una costante del suo cinema: “Mi piace la campagna, di qualsiasi paese”.
Era un regista perfettamente inserito nello studio system. Poteva portare sullo schermo ogni genere di storia. Sapeva dare al pubblico ciò che il pubblico voleva, sapeva come intrattenerlo e come emozionarlo, renderlo felice, oppure infelice, qualche volta. King amava il suo strano lavoro “mi sono divertito molto nel girare film, più di quanto la maggior parte della gente si diverta nel giocare”. Aveva avuto fortuna, faceva un mestiere che gli consentiva di esprimere se stesso. Non soltanto poteva dimostrare la sua abilità nel capire quale fosse l’angolo migliore in cui posizionare la macchina da presa, King attraverso il cinema poteva fingere di creare emozioni che in realtà gli appartenevano realmente. Sapeva che se un regista voleva comunicare con gli spettatori in sala, “doveva riversare la sua anima nella macchina da presa, e in quell’anima doveva esserci un po’ di poesia”. Guardando un film di King si ha veramente la sensazione che le emozioni costruite per il pubblico siano anche le sue: “ogni emozione che si vede in un film è passata attraverso la sensibilità del regista”.
Le sue origini erano irlandesi, la sua famiglia emigrò negli Stati Uniti alla fine del seicento. King quindi era americano e doveva credere nel sogno americano: inseguire un obiettivo, creare una famiglia, crescere numerosi figli e dopo molto sacrificio invecchiare prosperi e felici. Forse avrebbe voluto crederci ma detestava l’ipocrisia, e se si guarda in faccia la realtà credere nei sogni diventa difficile. Le famiglie dei suoi film appartengono al sogno americano soltanto al primo sguardo, poi ci si accorge che tutte contengono un’insidia, una fragilità in cui il germe del male può facilmente attecchire. A volte è un marito che non fa nulla per trovarsi un lavoro, altre un padre che muore e lascia alla madre il duro compito di crescere i figli, altre ancora una moglie che non vuole invecchiare in provincia. King osserva i suoi personaggi con affettuosa indulgenza. Ci mostra dove si nasconde la menzogna ma evita di svelarla ai protagonisti delle sue storie, lascia che l’illusione del sogno continui il più a lungo possibile. Nel frattempo, come un dio benevolo, gli costruisce un finale in cui il male viene momentaneamente offuscato da una nuova speranza. I suoi personaggi sono salvi, il pubblico è felice e il grande inganno può ricominciare.
La rassegna curata da Ehsan Khoshbakht, co-direttore del Cinema Ritrovato, comprendeva undici film, da Twin Kiddies del 1916 a The Bravados del 1958. Ne ricordiamo alcuni:
She Goes to War (Peggy va alla guerra) del 1929 è un film sulla Prima guerra mondiale che descrive le terribili condizioni dei soldati al fronte. La pellicola è stata riproposta nel ’39 come invito alla Nazione a tenersi distante da un secondo conflitto in Europa. In questa occasione la pellicola venne tagliata, portando la durata da cento minuti a cinquanta e rendendo la trama un po’ confusa. Peggy è una ragazza americana di buona famiglia che si trova in Europa al seguito di un fidanzato pronto a partecipare alla guerra. Quando i soldati vengono mandati al fronte il fidanzato di Peggy è completamente ubriaco e lei, vergognandosene, prende il suo posto. La sostituzione è resa possibile dal fatto che i militi indossano la maschera antigas. Scoperta dai suoi compagni di trincea si lancia esasperata in una missione suicida e riesce a compiere un atto eroico. Memorabile è la sequenza in cui un gruppo di carri armati avanza tra il fuoco provocato dai lanciafiamme tedeschi. I soldati all’interno dei carri devono sopportare una temperatura molto elevata, sudano e respirano a fatica. La macchina da presa riprende questa situazione claustrofobica alternandola con l’avanzare dei carri tra le fiamme riuscendo a far percepire allo spettatore la sofferenza fisica dei soldati. Forse il mal funzionamento dell’aria condizionata in sala ha dato il suo contributo.
Over the Hill del 1931 racconta la storia di una madre, Ma Shelby, che dedica la propria vita a crescere i suoi quattro figli. La scena d’apertura con il difficile risveglio mattutino della famiglia ha un ritmo veramente straordinario. A King servono poche immagini e pochissime battute per raccontarci questa normale famiglia americana: la personalità dei suoi componenti e quale sarà il loro destino. Ma Shelby è felice, nonostante il marito non si preoccupi di cercare un’occupazione, nonostante debba lavorare fino a notte perché i conti possano tornare. È orgogliosa di tutti i suoi figli, nonostante uno di loro le sottragga furtivamente del denaro.
Poi i figli crescono e Ma Shelby invecchia, il marito muore dopo aver causato la rovina di Johnny, uno dei quattro figli. È un’impresa difficile ma King riesce a tenere la donna lontana dalla parte più dolorosa della verità. Vuole che continui a credere nella sua famiglia, e lei continua a crederci. Ma il trascorrere del tempo è implacabile e Ma Shelby passa attraverso l’umiliazione, senza mai lamentarsene, di ritrovarsi sola e abbandonata nell’ospizio sulla collina perché i figli non hanno tempo da dedicarle. Tre dei suoi quattro figli. Ne resta uno, Johnny: il più ribelle, in apparenza il meno affidabile, quello che da bambino veniva punito per le malefatte del figlio più assennato. Partito per una spedizione in Alaska, ignora le condizioni della madre. Quando tutto sembra ormai perduto, Johnny ritorna e, come un cavaliere dalla lucente armatura, punisce i colpevoli, prende una carrozza trainata da cavalli, percorre la strada che porta all’ospizio sulla collina e riabbraccia la vecchia madre restituendole il suo sogno. Il pubblico è finalmente appagato e felice e ai più romantici risulta difficile trattenere le lacrime.
In Old Chicago (L’incendio di Chicago) del 1937, con un grande Tyrone Power. King mette in scena l’incendio che nel 1871 distrusse la città di Chicago e intreccia la Storia con le storie dei suoi personaggi. L’incendio è il pretesto per parlare di una normale famiglia americana di origini irlandesi, gli O’Leary: un padre, una madre e tre figli che con il loro carro stanno cercando di raggiungere il sogno americano. Il padre muore pochi chilometri prima dell’arrivo a Chicago, una città in grande espansione in cui sperava di poter far vivere e prosperare la sua famiglia. La madre, dopo aver sepolto il marito, prende le redini del carro, raggiunge la citta e vi si stabilisce. Crescerà più che dignitosamente i tre figli facendo la lavandaia. I ragazzi prendono strade diverse: il più piccolo sposa una giovane tedesca e si avvia a riprodurre una nuova famiglia; Jack (Don Ameche) diventa un ottimo avvocato che, per la sua grande onestà, perde cause imperdibili e Dion (Tyrone Power), un bellissimo, gioioso ed esuberante ragazzo – la luce degli occhi della madre – che intraprende l’ampia strada della disonestà per arricchirsi e diventare l’uomo più potente di Chicago. Pur di ottenere il suo scopo tradirà tutti, anche la sua amata famiglia, senza mai perdere il suo fascino. Ci vorrà una catastrofe – l’incendio della città involontariamente causato dalla famiglia O’Leary – e la morte di Jack perché Dion possa ritrovare la retta via.