di Renato Venturelli.
Era il film più atteso di Cannes 2019, e non è stato solo un evento mediatico, ma anche il momento più libero e gioioso di cinema dell’intero festival: C’era una volta… a Hollywood è un film che non ha solo confermato in pieno le attese, ma ha maciullato quello scetticismo di sottofondo che ormai accompagna come stucchevole controcanto a margine l’arrivo dei nuovi film di Tarantino.
L’ambientazione riguarda una Hollywood declinante, anzi addirittura nel punto massimo della sua crisi: quella di fine anni ’60, quando lo studio system sembra essersi spappolato, e quel che resta di Hollywood e del suo mito è assediato dalla storia e confusamente circondato dalla controcultura, dalle novità che non riescono ancora a definirsi con precisione.
Leo Di Caprio vi figura come star un po’ B di western e film d’azione che è però da tempo emarginato dal cinema e interpreta il cattivo in serie di telefilm, accanto ai giovani del momento: un quarantenne che vive ancora come un divo, ha la villa accanto a quella di Polanski e Sharon Tate, ma sente lo smarrimento di una carriera declinante, s’interroga sull’inutilità della propria esistenza e del proprio lavoro, è restio ad accettare le proposte di interpretare film in Italia, temendo che possano innescare il suo definitivo tracollo.
Al suo fianco, Brad Pitt (strepitoso) è la sua controfigura, che però non riesce più ad avere ingaggi e campa facendogli da autista e aiutante. Il film ciondola a lungo in questa dimensione orizzontale di una Hollywood sonnecchiante, riservando alcune sequenze memorabili attorno a un Brad Pitt al tempo stesso tranquillo e rissoso, come un giovane comprimario dei fifties, autentico erede della tradizione americana: dall’incontro con Bruce Lee (con tanto di frecciata al MeToo), alla scena in cui si ritrova in un vecchio studio di western, ormai fatiscente, abitato da una comunità di hippie mentre il decrepito proprietario è cieco e vegeta nel letto di una baracca.
Il famoso riferimento a Manson si avrà nel finale, con Brad Pitt che scambia l’irruzione del gruppo per la visione allucinata di una canna. E se qualcuno è rimasto sorpreso perché Tarantino rinuncia ad alcuni dei suoi marchi di fabbrica più proverbiali (i dialoghi dilatati e compiaciuti, l’esibizione della violenza ecc.), il film è invece perfettamente coerente con la sua pratica e la sua riflessione sul cinema: soprattutto perché la riflessione “teorica” non passa attraverso ciò che viene detto nei dialoghi, raccontato nella vicenda o esibito appunto come compiacimento teorico, ma attraverso il cinema che in quel momento viene fatto.
Il risultato è un film abbagliante, ancora una volta incompreso da molti, anche perché per Tarantino vale sotto certi aspetti ciò che è accaduto in questi anni con Eastwood: due giganti il cui valore sta innanzitutto nel modo in cui proseguono nel solco del grande cinema americano che stanno reinventando, ma che invece sono stati a lungo elogiati per aspetti assolutamente marginali che sembravano d’attualità nel dibattito culturale del momento. E che quindi vengono abbandonati quando questi aspetti esteriori sembrano scomparire.