di Renato Venturelli.
Molte divisioni provoca “Le jeune Ahmed”, dove i fratelli Dardenne affrontano il tema dell’estremismo islamico attraverso la vicenda di un tredicenne di origine nordafricana nato e cresciuto in Belgio, che si sottrae alla propria famiglia, frequenta un imam estremista, si convince di dover intraprendere un’azione personale da “buon musulmano” e tenta ripetutamente di uccidere la sua insegnante di arabo, considerandola un’islamica “corrotta”.
Per i Dardenne, è un altro personaggio adolescenziale chiuso, impenetrabile, entrato in un conflitto col mondo assolutamente radicale, per vie che rimangono in parte misteriose. Molti accusano il film di schematismo superficiale, ma in realtà i Dardenne sembrano sottolineare il loro restare al di fuori del personaggio e del suo mistero. Resta il fatto che, da quando hanno smesso di pedinare i loro personaggi e hanno cominciato a riprenderli di fronte, guardandoli in viso, in una sorta di riconquistata classicità, i Dardenne hanno perso rapidamente molti sostenitori.
C’erano attese anche per Portrait de fille en feu di Céline Sciamma, che però dopo aver raccontato le adolescenti vive e contemporanee di film come “Tomboy” e soprattutto “Diamante nero”, si chiude qui in un cinema in costume freddo, tutto di testa, imprigionato tra immagini pittoriche e armature ideologiche da cui sembra sia stata sottratta la vita. La vicenda riguarda il rapporto che scatta tra una pittrice francese di fine ‘700 e la ragazza che dovrebbe ritrarre, ma tutto resta accuratamente programmato, privo dell’esuberanza vitale che aveva incuriosito nei film precedenti della regista.
Fuori concorso si vede invece l’ultimo Abel Ferrara di Tommaso, racconto parzialmente autobiografico che sembra uscito da una costola di “Piazza Vittorio”, il documentario di Ferrara dove si vedeva Willem Dafoe andare a far la spesa nei negozi del quartiere. Lo stesso Dafoe interpreta qui un americano che vive a Roma, progetta un nuovo film da regista, ha una figlia piccola e frequenta un gruppo di disintossicazione. Un film girato in assoluta libertà e apparente semplicità tra strade e interni romani, ma passato quasi inosservato al festival: in effetti, da quando Ferrara gira più liberamente, sembra anche aver perso parte di quella forza e di quell’energia che alla resa dei conti gli era portata dal rapporto coi generi.
Sempre fuori concorso, un film francese che si presenta come una semplice commedia pronta per il circuito cosiddetto commerciale, ma che ha una sua efficacia e una sua ingegnosa costruzione. Si tratta di La Belle Epoque di Nicolas Bedos, dove Daniel Auteuil è un disegnatore satirico scettico e depresso, sempre più indifferente al mondo, emarginato anche dalla crisi della carta stampata. La moglie Fanny Ardant è invece una psicanalista perfettamente inserita, iperattiva, aggiornata su ogni moda, smaniosa di sempre nuove esperienze anche in campo erotico. La donna finisce così per sbattere il consorte fuori di casa. E lui accetta la proposta dei “Les voyageurs du temps”, un’agenzia che allestisce viaggi nel tempo per ricconi, dove il cliente può vivere in periodi del passato scrupolosamente messi in scena, circondato da attori ingaggiati per interpretare i vari personaggi d’epoca.
Auteuil può così rivivere l’esperienza giovanile del 1974, quando in un bistrot di Lione conobbe la futura moglie, all’epoca ragazza vivacissima e anticonformista: ma a questo punto scatta in meccanismo giocosamente complesso del film, perché l’attrice incaricata di interpretare la giovane Fanny Ardant (Doria Tillier) vive a sua volta un complicato rapporto col regista dell’allestimento (Guillaume Canet), Auteuil vede davanti a sé la compagna di un tempo ma anche l’attrice che la sta adesso interpretando, e i vari piani finiscono per sovrapporsi, facendo di quel viaggio a ritroso nel passato un’esperienza molto presente. E quello che ne deriva è un film che riflette con leggerezza sul teatro, il rapporto tra finzione e realtà, i vari modi in cui il meccanismo della rappresentazione agisce sulle persone.