di Massimo Lechi.
Tra i molti appuntamenti che compongono il fitto calendario di Qumra, la grande piattaforma industry promossa dal Doha Film Institute per sostenere il cinema arabo e offrire visibilità e opportunità di finanziamento ai nuovi talenti, le master class sono forse quelli di maggior richiamo per gli addetti ai lavori che ogni anno accorrono da tutto il mondo in Qatar, quelli che sin dalla prima edizione hanno generato le aspettative più alte.
La formula di Modern Masters rispecchia appieno lo spirito di questo evento esclusivo, la cui fama, complice il successo crescente delle produzioni targate DFI, ha ormai superato gli angusti confini mediorientali: una serie di film di riconosciuto valore, introdotti dai rispettivi autori (i Qumra Masters, appunto), chiamati inoltre a condividere le proprie esperienze e i propri percorsi artistici con il pubblico di Doha e con i filmmaker i cui progetti (nei vari stadi di lavorazione) sono stati selezionati dagli organizzatori.
L’edizione numero cinque di Qumra, tenutasi tra il 15 e il 20 marzo 2019, ha visto l’avvicendamento sul palco dell’auditorium del Museo d’arte islamica di Doha di figure di primissimo piano come lo scenografo Eugenio Caballero (collaboratore storico di Guillermo Del Toro e Alfonso Cuarón) e i registi Kiyoshi Kurosawa e Pawel Pawlikowski. Oltre naturalmente ad Alice Rohrwacher, che ad appena trentasette anni, e con soli tre lungometraggi all’attivo, vanta già due prestigiosi riconoscimenti a Cannes e l’inserimento nel gotha del cinema d’autore internazionale, in compagnia di un mostro sacro come Agnès Varda, il quinto Master 2019 – assente per motivi di salute e scomparsa pochi giorni dopo la fine di Qumra.
L’intervista che segue, un’informale chiacchierata con Rohrwacher sui suoi film, sul suo rapporto con il cinema e la letteratura e sull’importanza della condivisione e dell’incontro tra cineasti, è stata realizzata a margine della presentazione di Lazzaro felice (2018) nella capitale qatarina.
Il Doha Film Institute ti ha invitata in qualità di master, di maestro. Come ti fa sentire questo?
Diciamo che forse mi sento più un mastro, come mastro Ciliegia. (ride) E’ bello essere stata invitata qui. Sono molto sorpresa e felice di quest’atmosfera, della concentrazione e dell’attenzione per il lavoro. Mi aspettavo di arrivare in un posto più patinato, in una bolla. E invece la bellezza di questo istituto è che tutto è concentrato sui progetti, sulla collaborazione. Infatti non so quanto io possa essere mastro, perché sto ancora sperimentando e cercando…
Dal confronto può nascere l’ispirazione.
Parlare con altri registi è sempre un’esperienza “ispiratrice”, ed è proprio quello che serve. Spesso noi, quando abbiamo un progetto, parliamo solo con il nostro produttore: ci confrontiamo con logiche produttive. Mentre invece il confronto tra logiche creative è molto importante, e si fa davvero poco.
E’ una cosa che cerchi?
Sì, è una cosa che ho sempre cercato – anche se magari in maniera informale, individuale. Però non mi era mai capitato di offrire. Di questo devo ringraziare il Doha Film Institute.
Sei entrata in una nuova fase della tua carriera: grande e venerato maestro – o maestra.
Macché grande maestro! Piccolo. Piccolo maestro. (ride) Siamo tutti allievi e maestri al tempo stesso.
Una delle cose che sono emerse dalle master class dei registi che ti hanno preceduto è stata la separazione tra immagine e parola che spesso avviene nel processo creativo. Pawel Pawlikowski ha persino parlato di cinema come liberazione dalla letteratura – in riferimento soprattutto allo script. Tu lavori evidentemente molto sulla scrittura, ma il tuo realismo magico – se mi passi l’espressione – è molto elaborato anche a livello visivo.
Sì, lavoro molto sulla scrittura. E’ tutto molto scritto e studiato, è vero. Ma è studiato come è studiata la camminata sul filo dell’acrobata. Nei miei film c’è un’apparente freschezza che però nasce da tante prove e da tanta precisione.
Domanda molto sciocca: per te viene prima l’immagine o la scrittura?
Sicuramente viene prima la scrittura. Una scrittura che però è sempre legata a delle immagini… Non so dirti se nasce prima l’uovo o la gallina. Hai delle immagini, le scrivi e poi le ritrasformi in immagine: è tutto un convertire e riconvertire, una conversione continua. Credo però di avere la tendenza, quando scrivo, a mettermi in situazioni improbabili o impossibili. Impossibili non perché necessitano di chissà quali artifici o effetti speciali, ma perché generano quasi imbarazzo, perché per farle accadere bisogna buttarsi. E quindi è quasi un gioco: un tragico gioco.
Be’, Lazzaro felice era abbastanza “impossibile”.
Quando andavo a raccontarlo in giro – uno che cade nel burrone, poi chissà perché rinasce e poi casualmente rincontra tutti eccetera – suonava tutto così improbabile, così volutamente improbabile… Come però lo sono le fiabe, in cui se uno parte alla ricerca dell’uccel belverde, in mezzo al bosco trova proprio l’uccel belverde. Noi accettiamo questa possibilità nella fiaba, mentre nel cinema è più difficile.
Nonostante questo, l’aspetto autobiografico – quindi molto concreto, reale – delle tue storie viene messo in grande evidenza dalla critica.
In realtà non ho mai pensato di fare un film per raccontare una storia autobiografica. E’ un’arma a doppio taglio, e in genere là dove tutti pensano che ci sia un percorso autobiografico è dove invece sei meno presente. Forse la mia vita assomiglia più a quella di Lazzaro che a quella di Gelsomina, però se ti mostro una foto della casa dove sono cresciuta, vedi che è quella de Le meraviglie… E allora perché?
“Favola” è una parola in cui ti ritrovi?
Mi ci ritrovo perché, sì, abbiamo tutti i nostri drammi, però a me piace fare un cinema che racconta di un altro tipo di inconscio. Un inconscio collettivo, che poi è quello delle favole. E come nelle fiabe anche nei miei film i personaggi non hanno delle psicologie così caricate e complesse: sono semplici.
Nel tuo cinema l’elemento fiabesco però è cresciuto nel tempo. Corpo celeste, in qualche modo, era ancorato a un’idea di realismo piuttosto convenzionale. Poi con Le meraviglie ti sei aperta alla fiaba in singole sequenze e hai creato atmosfere più rarefatte. Infine con Lazzaro felice hai sistemato l’asticella molto in alto: hai addirittura chiesto allo spettatore di entrare in due film distinti.
Be’, uno non è che parte e va a fare una cosa che già sa fare. Si parte sempre per un viaggio misterioso. Uno fa dei tentativi, a volte più riusciti e a volte meno. Credo che si debba approfittare del lavoro per conoscere, per scoprire se stessi e il mondo… E non sempre si conosce la strada. Anzi, penso proprio che sia molto più affascinante un percorso non ancora calcato.
Però il 90% del cinema che vediamo è fatto da gente che si accontenta di fare più o meno bene quello che sa fare e non va oltre – e non c’è niente di male in questo… Mentre invece nei tuoi film vedo un desiderio di superare certi limiti e certe convenzioni cinematografiche. Appunto, un voler alzare l’asticella ogni volta un po’ di più.
Non so cosa mi sento in grado di fare. Diciamo che spesso “alzare l’asticella” viene inteso come “aumentare il budget”, mentre invece non è così. Bisogna sfatare questo mito. Certo, tra il primo e il terzo film il mio budget è cresciuto, però per me è importante non superare una certa linea oltre la quale non puoi più fare le cose seguendo un percorso di ricerca. E dico farle: farle a mano, tutti insieme. E cercare… Cercare di capire “il senso del viaggio dell’uomo sul pianeta”.
Però, accidenti… Ed è questo lo scopo del tuo cinema?
(ride) No no, non è questo il mio scopo! Stavo citando un bellissimo passaggio di Perle ai porci di Kurt Vonnegut – che è uno dei miei libri preferiti – in cui lui parla della fantascienza come l’unica forma che si occupa di politica e di presente…
Direi allora che, in base alla visione di Pawlikowski, tu non ti sei liberata della letteratura.
No, per niente. E non credo proprio che il cinema sia una liberazione dalla letteratura. Anzi, io vivo più di letteratura che di cinema.
E’ una sensazione che ho sempre avuto vedendo i tuoi film. Ci ho sempre ritrovato tanta narrativa. Anna Maria Ortese ed Elsa Morante, per esempio.
Sì, hai citato due scrittrici a cui sono molto legata.
Diresti dunque che i tuoi riferimenti sono più letterari che cinematografici?
Non parlerei mai di riferimenti. Secondo me dobbiamo parlare di nutrimento: siamo quello che mangiamo sotto tutti i punti di vista, anche quello dell’immaginazione. Per esempio, su Lazzaro felice abbiamo fatto un lavoro di scenografia e costumi con Emita Frigato e Loredana Buscemi per ottenere qualcosa che fosse molto molto realistico e allo stesso tempo “spostato”. Per creare questo spostamento abbiamo cercato elementi legati alla memoria – e non solo alla nostra, individuale. La campagna, nel film, è una memoria della campagna e anche la città è una memoria di città. E questo ha fatto sì che tante volte, avendo visto una determinata scena, gli spettatori mi siano venuti a dire di essersi ricordati di altri film e di aver trovato riferimenti diversi. Però forse è come quando tra mille volti ne troviamo uno, ce ne innamoriamo e diciamo: “mi sembra di conoscerti”.
Stai parlando quasi con gioia… Per te fare cinema dev’essere un’esperienza emotiva forte.
Be’, è un’esperienza emotiva, ma è anche un’esperienza intellettuale molto forte. E’ un brivido dell’intelletto e uno sforzo fisico. Questo sta sparendo dalla nostra società, dalle nostre vite. Il cinema invece è ancora fare le cose tutte insieme.