Latitudine Italia – Un altro cinema è possibile

di Guido Reverdito.

Se si passano in rassegna i film italiani usciti in sala dall’inizio della stagione fino a questo immaginario giro di boa di metà inverno e si cerca di tirare le somme azzardando un’analisi di tipo qualitativo, c’è davvero poco da stare allegri. In una corsa quasi sempre in apnea verso tentativi di raccontare il presente nostrano nelle sue mille e complesse sfaccettature, sembra che l’approccio preferito da sceneggiatori e registi sia quello della commedia per palati poco esigenti anestetizzati dalla serialità televisiva di basso rango, anche se spesso caricata da malriposte ambizioni di ritratto sociale che nella maggior parte dei casi si convertono però in macchiettismo da strapaese fuori tempo massimo.

Il modello imperante è quello e si fa fatica a citare titoli che riescano a evadere dai vincoli di una miopia produttiva che sembra condizionare a priori ogni tipo di produzione Ecco quindi tentativi di dare corpo a statistiche ISTAT sulla povertà reale del paese in prodotti quali Ricchi di fantasia, Il bene mio o Non è vero ma ci credo. Riflessioni vagamente pleonastiche sullo stato dell’arte all’interno dell’ormai abusatissimo tema della dissoluzione della famiglia come pilastro secolare della società italiana come quelle intorno alle quali ruotano le sceneggiature di titoli (di per sé molto diversi anche a livello di riuscita complessiva) quali Saremo giovani e bellissimi, La fuitina sbagliata, Un giorno all’improvviso, e Ovunque proteggimi.

Non mancano poi l’inevitabile ricorso al bozzettismo regionale, col cortocircuito Nord/Sud di Compromessi sposi (vedi alla voce Benvenuti al Sud/Nord per ritrovare il riferimento immediato più diretto), così come ineludibili e un po’ pericolose scimmiottature ridanciane del crimine organizzato quali quella di Uno di famiglia (con toni in stile Un boss in salotto) o lo sgangherato Non ci resta che il crimine nel quale ci si aggrappa all’espediente del viaggio a ritroso nel tempo per allestire una farsa con la tragedia truculenta della banda della Magliana ridotta a pretesto comico. O ancora si finisce a non disdegnare lo sfruttamento – come accade ne La prima pietra – del tema sempre verde dell’integrazione razziale nel tessuto della società italiana di oggi di culture «altre» rispetto a quella presuntamene autoctona.

Sarebbe bello poter non contare nell’elenco di questo mini cahier de doléance per lo meno il cinepanettone, che da un decennio a questa parte sembra sull’orlo del necrologio annunciato e invece puntualmente risorge come un’eterna araba fenice (o forse meglio come una sorta di orticaria cronica del cinema di casa nostra per la quale non sembra esserci cura di sorta). Errore. Il cinepanettone gode invece di ottima salute.

E non solo con Amici come prima va registrata la ricomposizione del duo Boldi-De Sica tornati a rinvigorire i fasti della loro comicità pecoreccia da caserma dopo anni di astioso divorzio, ma con Natale a 5 stelle – prodotto da Netflix e distribuito sulla piattaforma per gli abbonati molto prima che gli spot festaioli monopolizzassero gli spazi negli intervalli tra una rissa TV e l’altra – questa reinterpretazione tutta italiana della pochade tardo ottocentesca è stata definitivamente sdoganata da prodotto trash per decerebrati vacanzieri a intrattenimento degno di apparire nel bouquet della regina della distribuzione in streaming a pagamento.

E a poco aiuta che autori con la A maiuscola come Mario Martone e Paolo Virzì abbiano mostrato preoccupanti involuzioni di ispirazione rispettivamente col non certo digeribilissimo Capri Revolution (per quanto originale nel suo unicum di ricostruzione accurata di una serie di eventi poco noti in area risorgimentale), o con l’autobiografico ma sconclusionato Notti magiche, parso ai più un netto passo indietro a livello di creatività nella filmografia del cineasta livornese, specie dopo lo scoppiettante La pazza gioia e la zingarata USA di gran classe ne The Leisure Seekers.

C’è poi chi ha osato ancora di più imbarcandosi in un genere — cappa e spada alla corte di Versailles — con un’improbabile riproposizione in salsa mediterranea della saga dei quattro moschettieri. Coraggioso e bizzarro al contempo, i Moschettieri del re di Giovanni Veronesi ha tentato di svincolarsi dai lacciuoli della commedia carina proponendo una picaresca gita fuori porta temporale con un quartetto di nomi caldi del cinema italiano troppo legati però alle proprie fisionomie attorali per poter essere credibili nei panni degli imbolsiti spadaccini del tutti per uno e uno per tutti.

Quando poi si arriva al fondo del barile, a venire in aiuto sono i rifacimenti di sceneggiature che hanno fatto cassa al botteghino di altri paesi. È il caso – a livello di commedia di facile consumo – de L’agenzia dei bugiardi, di Dieci giorni senza mamma e de Il testimone invisibile nell’àmbito del thriller cerebrale, prodotti questi confermati dall’annunciato Domani è un altro giorno, in uscita il prossimo mese e adattamento alle latitudini romane del magnifico Truman che batteva bandiera spagnola.

Intendiamoci, chi cerca di evadere da questi claustrofobici vicoli ciechi c’è stato. Eccome. Basti pensare a prodotti non allineati come i due gialli Una storia senza nome e l’appena citato Il testimone invisibile (il cui sostanziale flop ai botteghini dimostra come il genere vada fortissimo nella serialità da piccolo schermo ma molto meno quando si cerca di fare cinema qualitativamente di genere come nel caso dei film di Roberto Andò e Stefano Mordini).

Qualcosa di buono e di non destinato a finire nel tritatutto del dimenticatoio dopo fugaci passaggi nelle sale c’è comunque stato. Titoli diversissimi tra loro quali Sulla mia pelle (oggetto di acceso dibattito tra i fautori dell’ingresso di Netflix nel cinema di qualità autorale e quanti invece hanno gridato allo scandalo al vedere il film distribuito contemporaneamente nelle sale e sulla piattaforma in streaming), Il vizio della speranza, Troppa grazia, Ride ed Euforia (degli attori Mastandrea e Golino passati dall’altra parte della barricata) o ancora piccole produzioni appartate del calibro In viaggio con Adele e Guarda in alto sembrano in grado di rendere il tutto vagamente più digeribile e di sperare che nella palude stagnante che è il cinema italiano di questa stagione ci sia spazio per qualche spruzzo di acqua fresca.

 

Romolo, Remo & Co. In un panorama non proprio incoraggiante come quello appena descritto, l’arrivo nelle sale de Il primo re di Matteo Rovere è stato invece come lo scoppio di una bomba carta in una cristalleria. Per capire a quanti anni luce di distanza dal resto della produzione locale ci si trovi con questo prodotto apparentemente difficile da incasellare in categorie precostituite basterebbe anche soltanto un accenno al soggetto trattato. E cioè la lotta per la sopravvivenza di due fratelli pastori nel Lazio dell’VIII a.C. Due fratelli però molto particolari perché discendenti niente po’ po’ di meno che dal mitico Enea e chiamati dal destino a fondare uno degli imperi più potenti e duraturi che l’umanità abbia mai visto nascere e fiorire sulla Terra.

Basterebbe solo questo per capire quanto coraggiosa sia l’impresa tentata dal 36enne regista e produttore che il grande pubblico ha imparato ad apprezzare per il riuscitissimo Veloce come il vento. E cioè imbarcarsi in un kolossal apparentemente d’altri tempi incentrato su un soggetto a dir poco bizzarro (non tanto il mito della fondazione del primo nucleo abitativo della Roma antica, quanto piuttosto l’ipotesi di inventare una sorta di avventurosa biografia ante quem dei due fondatori leggendari prima dell’evento cruciale della fondazione stessa), investendoci sopra un budget importante per le dimensioni del cinema italiano e decidendo di optare per una scelta stilistica di realismo radicale tanto nelle location scelte per girare quanto per la lingua da mettere in bocca al cast.

Ma il coraggio a volte paga. E anche le scommesse più rischiose si finisce per vincerle. Soprattutto se il progetto su cui si decide di metterci la faccia (e i capitali…) ha le caratteristiche per imporsi come una sorta di punto di svolta e di rottura all’interno di un cinema che non riesce a liberarsi dalle panie dell’autoreferenzialità e del riciclo di cliché sempre più lisi e abusati.

Che Matteo Rovere avesse in mente fin dagli esordi un’idea di cinema diversa dalle minestrine riscaldate che circolano in giro lo si era capito fin da subito. Anche soltanto basandosi sia sui tre film finora scritti e diretti che sulla sua accorta attività di produttore di cinema altrui. Come dimostrato dal coraggio con cui nel 2014 decide di sponsorizzare l’esordio di Sydney Sibilia in Smetto quando voglio, destinato a diventare il più grande e inatteso successo dell’intera stagione e a conoscere due ulteriori capitoli nell’arco di meno di tre anni. Quello stesso Sydney Sibilia con cui Rovere ha fondato la casa di produzione Groenlandia, che guarda caso ha coprodotto Il primo re.

Il primo re può davvero essere questo. E cioè la conferma che osare si può e che è possibile parlare del nostro difficile presente affidandosi a fatti avvenuti 2700 anni or sono che, nella loro atemporalità quasi mitica e scollata da una qualche urgenza di incasellatura cronologica, possono fare da cartina di tornasole per aiutarci a leggere le contraddizioni del tempo che stiamo vivendo.

Il primo re fa capire sin dalla movimentata sequenza di apertura che cosa voglia raccontare e soprattutto come lo voglia raccontare. Una piena improvvisa del Tevere travolge in un mare di acqua, fango e detriti tutto ciò che incontra sul proprio cammino. Ivi compresi due pastori e le loro greggi. Due ragazzi che hanno solo se stessi e l’amore che li unisce per resistere allo straripare del fiume e anche agli assalti della vita.

Due ragazzi che hanno i volti rispettivamente di Alessandro Borghi e Alessio Lapice. Se il primo — un Remo di straordinaria potenza evocativa — con una carriera fatta di scelte accorte sempre dettate dall’urgenza di lanciare messaggi più che di scalare il successo dello star system ormai non stupisce più essendosi conquistato sul campo la nomea del più duttile e versatile attore della sua generazione, la vera sorpresa è il Romolo di Alessio Lapice, che fino a questo exploit nei panni del fratello in ombra per più di tre quarti di film si era fatto già apprezzare sia in TV (Gomorra 2 — La serie) che in film di qualità come Il padre d’Italia e Nato a Casal di Principe.

Fin da queste drammatiche fasi di corpi che si avvitano sott’acqua e cercano di opporsi alla furia delle acque si capisce benissimo il tipo di operazione che Matteo Rovere ha in mente di fare: raccontare una storia di amore fraterno (anche se destinata a sfociare nel celebre fratricidio che darà la stura ai fasti di Roma antica e che è anche alla base della nostra infinita storia peninsulare di lotte intestine e tradimenti) puntando tutto sulla fisicità dei corpi a confronto con la brutalità primigenia delle forze della Natura in un mondo in cui tutto è ostile e il semplice possesso del fuoco regala aura di divinità a chi ne abbia il controllo.

Sopravvissuti all’alluvione solo grazie alla tenacia e a un innato gioco di squadra figlio dei vincoli di sangue che li legano, Romolo e Remo si trovano spiaggiati come balene esauste sulle rive del Tevere molto più a valle del villaggio in cui lo spettatore suppone abitassero. Catturati dai guerrieri della città di Alba Longa, per i due fratelli inizia un percorso a ostacoli per la sopravvivenza destinato a convertirli da pastori stanziali in combattenti pronti a ogni forma di scontro pur di sopravvivere (ignari come sono però di essere stati scelti dal Destino per una missione fatale con pesanti ricadute sulle sorti dell’umanità intera).

Un percorso fatto di battaglie destinate a lasciare sul campo solo quell’uno che in questo gioco di predestinazione è stato scelto per portare avanti la fiaccola della civiltà e soffocare la ferocia degli impulsi di guerra (anche fratricida) con l’urgenza della legalità costituita e riconosciuta da un’intera comunità. E se i primi scontri sono a mani nude, dal momento in cui i due fratelli hanno la meglio con astuzia omerica sugli Albani che li hanno catturati e li costringono a uccidersi a vicenda per poi sacrificare il soccombente al Dio del fuoco, le battaglie successive sono combattute con armi sottratte ai vinti (prima gli Albani e poi i forti abitanti della città di Veio).

L’intera vicenda è raccontata dal punto di vista di Remo, ovvero quello tra i fratelli destinato a soccombere nello scontro finale, ma anche a non lasciare il proprio nome inciso nel grande libro della Storia come il protagonista dell’inizio di un’avventura unica nel suo genere. E già questo semplice dettaglio varrebbe da solo per catalogare la sceneggiatura scritta a sei mani da Matteo Rovere, Filippo Gravino e Francesca Manieri come un prodotto di assoluta originalità che non può avere nulla in comune con quanto si vede in sala di questi tempi.

Una cifra questa che caratterizza l’intera operazione de Il primo re. A cominciare dalle location scelte da Rovere per girare la sua epopea: deciso a rispettare con acribia da filologo incallito le aree geografiche dove la leggenda vuole che si siano svolte le gesta leggendarie del futuro fondatore di Roma e del fratello, la troupe ha lavorato per quasi tre mesi nel basso Lazio, in un’area compresa tra Velletri e Nettuno. Ovvero proprio là dove nell’VIII secolo a.C. l’archeologia ha confermato fossero stanziate e rivaleggiassero per il controllo delle risorse una trentina di popolazioni più o meno autoctone del Latium vetus.

Ma forse l’aspetto che maggiormente colpisce in questo approccio di assoluto rigore all’insegna del realismo più radicale è la scelta linguistica. Consapevole che il far parlare in italiano – o, peggio ancora, in un malaugurato inglese – pastori attivi in quella zona della penisola italica molti secoli prima che il latino si strutturasse nelle modalità morfosintattiche che ben conosciamo avrebbe prodotto un effetto di completo straniamento, Rovere ha avuto la geniale intuizione di andare a caccia di una forma di comunicazione che riproducesse fedelmente questa fase pre-scritta di verbalizzazione.

Ed ecco quindi Romolo, Remo e tutta la congrega di sodali che accompagnano soprattutto il secondo nella sua violenta corsa verso il potere comunicare gli uni con gli altri in una versione di protolatino che semiologi e glottologi della Sapienza hanno ricreato usando in parte le fonti disponibili e ibridandole con innesti di indoeuropeo là dove era possibile solo navigare a vista dovendo vedersela con lacune troppo ampie per poter essere risolte con semplici deduzioni.

E se nelle prime fasi si rimane spiazzati al sentire questa versione metallica di lingua essenziale sulla bocca di tutti i personaggi, dopo qualche minuto ci si fa l’orecchio e la memoria degli anni passati a fare a cazzotti con la lingua di Cicerone affiora dai tempi del liceo venendo in aiuto a chiunque non l’abbia rimossa del tutto, contribuendo così a rendere ancora più autentica e vera l’esperienza dell’immersione totale nel mondo primordiale in cui Romolo e Remo si affannano a sopravvivere.

Un esercizio questo cui però lo spettatore non viene chiamato con eccessiva insistenza. Il primo re è infatti più che altro cinema allo stato puro in cui la parola fa da semplice corredo esterno (ma in questo caso filologicamente autentico) alla tirannide delle immagini. Immagini di corpi spesso mutilati e imbruttiti dallo scontro con la Natura che combattono con gli elementi senza mai avere troppo bisogno di ricorrere alla parola per sopravvivere alla violenza devastante dell’urto.

Immagini che la straordinaria fotografia naturalistica in formato anamorfico di Daniele Ciprì rende ancora più autentiche nella missione di depositarie uniche del racconto che la sceneggiatura attribuisce loro. Senza mai ricorrere a illuminazione artificiale di alcun tipo, Ciprì riesce nell’impresa di allineare il suo occhio non solo al tipo di paesaggio che è chiamato a illustrare, ma anche a renderlo sguardo coerente con l’albore crepuscolare di civiltà che documenta con la sua assenza di gonfiature cromatiche artificiali (cui si è fatto ricorso soltanto nella già ricordata sequenza di apertura con la piena del Tevere).

E in questo un aiuto non da poco glielo fornisce la straordinaria colonna sonora firmata da Andrea Farri, autore quanto mai prolifico che con Matteo Rovere aveva già collaborato in Veloce come il vento: se è vero che a qualcuno i suoi tamburi ricorderanno di certo quelli usati da Junkie XL in Mad Max: Fury Road, va però detto che la sintonia tra i timbri tribali della sua musica, il paesaggio inquietante e inospitale in cui si muovono i personaggi e la presenza minacciosa della Divinità rappresentata dal fuoco sono il corollario perfetto a questo approccio di rigore assoluto.

Antipeplum per eccellenza pur essendo di fatto un film in costume, Il Primo re si pone agli antipodi esatti rispetto a quella fortunata stagione del cinema di cartapesta storica che regalò all’industria nostrana tanto ossigeno produttivo fin dalla fine degli anni ’50. Il peplum all’italiana — ma anche quello più recente targato Hollywood in robaccia stile Troy o 300 — partiva da vaghi riferimenti a Storia e mitologia di grana grossa per raccontare vicende in costume il cui spirito era però immediatamente riconducibili all’epoca di cui erano il riflesso.

Il primo re procede invece in direzione diametralmente opposta: immagina come avrebbe potuto essere la vita in un determinato periodo storico sbiadito nella leggenda anche presso gli storici romani (Tito Livio su tutti) che lo avevano trattato affrontandolo in maniera scientifica e inchioda su quel canovaccio una vicenda vecchia di quasi 3000 anni ma che ha però la forza e la capacità di far riflettere sul nostro presente più di qualsiasi pellicola nata col preciso intento di parlare di questo difficile oggi che stiamo vivendo. E ci ricorda che il nostro è il solo popolo al mondo nato da un fratricidio e non da un parricidio o da una rivolta contro una qualche autorità tirannica.

A cosa somiglia questo piccolo capolavoro emerso dal nulla come un fungo anomalo nella palude del cinema di casa nostra di questa stagione sfiancata dall’assenza di ispirazione? A ben volere, mentre ci si lascia rapire dall’ascesa di Romolo al potere sul basso Lazio e al suo progressivo trasformarsi da guerriero rivoluzionario (contro l’autorità costituita di chi è più avanti nel percorso della civilizzazione) in tiranno sanguinario avviato verso morte certa per mano del fratello, vengono in mente altre pellicole non meno coraggiose che hanno seguito percorsi simili di immersione totale in una determinata epoca poco percorsa da altri.

Da Il pianeta delle scimmie a Revenant — Redivivo e a La guerra del fuoco per la lotta impari contro forze preponderanti e per la contrapposizione tra debolezza umana e prepotenza impari della Natura, dal dittico di Mel Gibson regista di Apocalypto e The Passion per le radicali scelte linguistiche, fino a passeggiate nella follia produttiva del calibro di Fitzcarraldo o Valhalla Rising, o ancora The new World di Terrence Malick per l’approccio naturalistico, non sono certo pochi i titoli che vengono in mente se proprio ci si vuole sforzare a trovare qualche precedente che possa funzionare da detonatore di ispirazione per un film quasi impossibile da catalogare come Il primo re.

Ma si tratta di pure suggestioni. Che per quanto accreditabili possano risultare, non potranno mai contare su un aspetto che rende unico il film di Matteo Rovere. E cioè la possibilità di raccontare una vicenda che è sì immersa nei vapori della leggenda, ma che comunque è l’atto costitutivo di una civiltà che nessuna crisi di immagine potrà mai inquinare. Un pezzo di epos sospeso tra verità storica e mito che non galleggia nei territori immaginari del fantasy, ma che sta alla base di un percorso comune e che non deve mai smettere di essere visto come il sigillo di un’identità destinata a durare nel tempo.

E se solo questo fosse il messaggio trasmesso da Il primo re, pur rischiando di essere esposto (coi tempi che corrono) a pericolose appropriazioni di parte, basterebbe per rendere l’intera operazione un atto di fede e un richiamo alle proprie origini per un popolo oggi smarrito e non certo memore de li maggior sui.

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