di Aldo Viganò.
Erano esattamente dieci anni, cioè da “Gran Torino” (2008), che Clint Eastwood non era più protagonista di un film da lui stesso diretto. Nel frattempo, nonostante l’età sempre più avanzata (Clint è del 1930), egli ha comunque firmato la regia di altri sette film, quasi tutti di alta qualità. Ma il suo ritorno davanti alla cinepresa segna un evento per molti versi memorabile.
Prima di tutto perché, come sempre, la sua presenza sullo schermo, nel ruolo di un personaggio tratto da un fatto di cronaca che ha la sua stessa età (88 anni compiuti), offre al film una marcia in più. Poi anche perché, come già era accaduto in molte sue opere precedenti (da “I ponti di Madison County” a “Gran Torino”), la sua recitazione “underplaying” offre al racconto la possibilità di incanalarsi su un sentiero dove i “generi” narrativi sono liberi di intrecciarsi in un affascinante miscuglio di comico e di tragico, di commedia e di melodramma.
Earl Stone, il personaggio che Eastwood pone al centro di questo “The Mule”, è un floricultore solitario che per anni ha viaggiato allegramente per tutti gli Stati Uniti, trascurando di fatto la moglie e la figlia. Ora, però, qualcosa sta cambiando nella sua vita. I tempi nuovi (internet e le nuove tecnologie compresi i telefonini) tendono sempre più a emarginarlo, con il risultato che le banche gli pignorano la casa, mentre la famiglia gli sembra sempre più lontana, nonostante il suo tentativo di avvicinamento per il matrimonio della nipote.
È appunto nel corso di questa ultima occasione famigliare che casualmente qualcuno suggerisce a Earl la possibilità di conciliare la vita libera e spensierata sinora condotta su quattro ruote con l’incarico di corriere della droga per un cartello messicano.
Per l’ormai ex-floricultore si apre così una nuova vita che il film cadenza in dodici viaggi, i quali a loro volta evocano via via la gioia per i lunghi viaggi sul suo pick-up, con la sola compagnia della musica; la piacevole sorpresa di trovarsi tra le mani ricche mazzette di dollari; la libertà di nuovi e imprevisti incontri strada facendo; la scoperta dell’altruismo reso possibile dalla disponibilità di tutto quel denaro da lui utilizzato ora anche per aiutare gli amici e i parenti.
È tutto questo che concorre a definire il tono narrativo di “The Mule”.
Un film che parla della vita e dell’avanzare degli anni privilegiando i ritmi di una commedia, nel corso della quale il piacere di vivere si coniuga con la malinconia della vecchiaia, aprendo al personaggio, e con lui allo spettatore, una nuova prospettiva sulla via del ripensamento del passato.
Ed è in questa direzione che Clint Eastwood dà il meglio di sé: sia come attore, sia come regista.
Quello che questo splendido quasi novantenne propone sullo schermo è un film meraviglioso per stile, per tonalità e per struttura narrativa.
La vicenda umana di quel vecchio individualista, che lentamente scopre i veri valori dell’esistenza, s’intreccia con la caccia che gli sta dando l’FBI nella persona dell’agente Bradley Cooper, ma anche con le violente lotte interne al cartello mafioso per la conquista del potere. Ancora una volta, cioè, Clint Eastwood coniuga l’introspezione con l’azione. Concedendosi anche, proprio al culmine delle drammatiche tensioni provocate dagli eventi esterni, l’inaspettata pausa-divagazione di una lunga sosta del suo protagonista al capezzale della moglie (Dianne Wiest) che sta morendo di cancro. Nessun sentimentalismo o caduta nel patetico. Per Clint, come del resto già anche nei due film che più assomigliano a questo (“I ponti di Madison County” e “Gran Torino”), il cinema resta sempre l’arte dei comportamenti umani, anche quando, come in questo caso, essi si coniugano sul filo della commedia.
Una commedia, quella di “The Mule”, che diventa anche il segno di una raggiunta maturità artistica.
La quale da una parte si concretizza nella battuta finale («Almeno adesso sapremo dove cercarti») con cui la figlia accoglie la decisione di Earl di dichiararsi colpevole e trascorrere i suoi ultimi anni in carcere a coltivare fiori; mentre, dall’altra, giustifica perfettamente quel “tormentone” verbale che nel corso di tutto il film portava chi incontrasse il protagonista a sottolineare la sua somiglianza con James Stewart. Più che al fatto fisico, si scopre, infine, è evidente che questa somiglianza fa riferimento al protagonista delle migliori opere di Frank Capra e a quello dei grandi western di Anthony Mann.
Una assonanza narrativa e attoriale di cui Clint Eastwood diventa appunto, in “The Mule”, vivente e meraviglioso testimone, proponendosi insieme quale ultimo erede della Hollywood classica, e come riconosciuta incarnazione di un personaggio capace di essere insieme classico e moderno, vero e falso, divertente e drammatico.
IL CORRIERE – THE MULE
(“The Mule” – USA, 2018) regia: Clint Eastwood – sceneggiatura: Nick Schenk – fotografia: Yves Bélanger – musica: Arturo Sandoval – Scenografia: Kevin Ishioka – montaggio: Joel Cox. interpreti e personaggi: Clint Eastwood (Earl Stone), Bradley Cooper (agente Colin Bates), Michael Peňa (agente Trevino), Dianne Wiest (Mary Stone), Andy Garcia (Laton), Alison Eastwood (Iris Stone), Taissa Farmiga (Ginny Stone), Ignacio Serricchio (Julio), Loren Dean (agente Brown), Laurence Fishburne (agente speciale Dea), Victor Rasuk (Rico), Manny Montana (Axl), Clifton Collins Jr. (Gustavo), Noel Gugliemi (Bald Rob), Eugene Cordero (Luis Rocha), Robert LaSardo (Emilio). distribuzione: Warner Bros. – durata: un’ora e 56 minuti