di Renato Venturelli.
Prima di diventare il regista di “Immacolata e Concetta”, “Le occasioni di Rosa” o “Blues napoletano”, Salvatore Piscicelli aveva svolto per anni l’attività di critico cinematografico, in particolare su “L’Avanti” e su “Cinemasessanta”. Il volume uscito adesso a cura di Gino Frezza riunisce sotto il titolo “L’imitazione della vita – Scritti di cinema 1970-2016” (ed.Meltemi, Milano 2018, 310 pp., 24 euro, prefazione di Alberto Castellano) un folto gruppo di questi articoli, tra recensioni di film, saggi, interviste. E’ un’ottima occasione sia per ricostruire la formazione cinematografica del regista (gran parte degli interventi sono anteriori al suo esordio), sia per ripercorrere una stagione importante e ormai in buona parte lontana della cultura cinematografica italiana, arrivando però con una serie di interventi fino ai giorni nostri.
Le circostanze in cui si avviò questa attività critica vengono rievocate nel libro dallo stesso Piscicelli, che ricorda come Lino Micciché – col quale già collaborava per la Mostra di Pesaro – gli propose di fargli da vice sull’Avanti!, lasciandogli poi assoluta libertà di espressione e di valutazione: e questo nonostante il regista si considerasse “un estremista sia sul terreno della politica che su quello dell’estetica”.
Le recensioni scelte coprono il periodo che va dal 1972 al 1976 e riguardano in buona parte il cinema italiano e quel tipo di cinema americano che Piscicelli sentiva più innovativo: da Comencini e Monicelli a Carmelo Bene e Mario Schifano, da Huston e Aldrich a Cukor, Mankiewicz, Woody Allen. In quest’ambito, uno dei casi oggi più interessanti è quello di “Voglio la libertà”, film giudicato “eccellente” da Piscicelli e realizzato da un regista come Irvin Kershner che in effetti sembrava a suo tempo tra i più promettenti del cinema statunitense: oggi Kershner è stato emarginato e dimenticato dalla memoria critica, ma va ricordato che Terence Malick lo definiva “un maestro e amico”, che fu all’origine di un film come “La conversazione” di Coppola e che gli stessi Tavernier e Coursodon gli dedicano moltissimo spazio nel loro “50 ans de cinéma américain”.
Gli interventi saggistici permettono poi di approfondire maggiormente alcuni aspetti, dalla prontezza con cui Piscicelli cerca di analizzare il fenomeno dei film di kung-fu esploso nell’Italia del 1973 alle riflessioni benjaminiane sul “cinema politico”, al modo in cui la cultura italiana dell’epoca – e in particolare quella di sinistra – stava rileggendo il cinema del periodo fascista. E tra gli articoli usciti su “Cinemasessanta” hanno un respiro particolarmente ampio quelli su Mizoguchi, Godard, Rivette, o sul “caso Robbe-Grillet” (“un caso esemplare di slittamento dall’avanguardia al consumo, nel quale i moduli linguistici una volta trasgressivi sono recuperati a una fruibilità degradata, di tipo kitsch”).
Il libro arriva poi ai giorni nostri e alla militanza critica che Piscicelli continua a esercitare attraverso il suo blog personale, segno di un’insopprimibile cinefilia. Ma uno degli interventi più interessanti resta quello del 1999 sulla situazione del cinema italiano, dove ripercorre il suo tracollo negli ’80 dell’affermazione della tv commerciale e pubblica. In questo periodo, il regista si dichiara soddisfatto di aver realizzato almeno “un paio di buoni film”, ma circa la sua parca attività cita Oshima: “una filmografia dovrebbe parlare anche attraverso i suoi silenzi”.