Latitudine Italia – L’ora di religione: “Il vizio della speranza”, “Troppa Grazia” e altri…

di Guido Reverdito.

Non si può certo dire che il cinema italiano degli ultimi anni abbia rinunciato a ricorrere alle dimensioni del sacro, dello spirituale e della religione in genere tanto nei titoli di molti film prodotti quanto anche nello sfruttamento – spesso a fini macchiettistici – delle figure che ne rappresentano canonicamente la presenza in terra.

In Non c’è più religione il modello ormai trito e abusato di Benvenuti a Sud/Nord viene trasferito all’àmbito delle grandi confessioni rivelate per allestire uno scontro bozzettistico tra cattolicesimo e islamismo nel nome di un invito bonaccione al «volemose bene» del finale accomodante.

Se non c’è più religione (nel senso proverbiale del termine ma anche all’atto pratico, visto il proliferare massiccio di chiese innovative e confessioni nate all’ombra della crisi), allora è bene ingegnarsi e creare modelli alternativi. Ed ecco quindi Io c’è, con il bed&breakfast in crisi trasformato in luogo di culto dove si professa lo «ionismo», neonata credenza truffaldina che mette l’IO al centro dell’universo sfruttando la dabbenaggine della gente per fare profitti all’ombra della fede.

Ma anche così l’umanità sul pianeta Terra se la passa assai male. La gente sopravvive facendo debiti a destra e manca. E allora ci vuole chi quei crediti li vada a esigere per rientrarci dentro. Ed ecco che in Rimetti a noi i nostri debiti c’è chi è messo così male che, pur di tornare a galla, accetta di fare a gratis l’esattore per quegli stessi usurai che gli hanno portato via tutto il niente che aveva.

E le figure di religiosi? Non dovrebbero essere loro i paladini inattaccabili di una fede ormai tanto compromessa? A giudicare dal clero imbalsamato e bolso che Verdone mostra in Benedetta follia, non può certo venire da lì un segnale di riscossa. E meglio fa chi si tiene alla larga dal prete truffatore di Un nemico che ti vuole bene o dal sacerdote col vizietto della pedofilia in Youtopia.

Tocca quindi a Gesù in persona intervenire. In Oh mio Dio! (versione cristologica e non particolarmente memorabile di Sono tornato) la missione di far rinsavire le troppe pecorelle smarrite fallisce miseramente: arrivato a Roma con due cameramen pronti a immortalare sui social media una campagna annunciata come trionfale, proprio nella città dove sorge la sua Chiesa, l’Altissimo apprende che l’umanità è ormai indifferente a tutto e anche i miracoli coi quali cerca di convincere il mondo della propria natura vengono recepiti come trucchi da Photoshop avanzato o una banale fake news potenziata dalla rete.

Ci sarebbe bisogno o di un miracolo vero e proprio (come accade sia in Lazzaro felice che ne Il miracolo, la fortunata serie TV scritta e diretta da Niccolò Ammanniti). Se non addirittura di una figura carismatica capace di coniugare la forza coesiva della tradizione con lampi di modernità trasgressiva (come succede in The Young Pope, altra fortunata serie TV, firmata addirittura dall’Oscar Paolo Sorrentino e incentrata su questo forte bisogno di spiritualità che sembra avvertirsi ovunque senza però che quanti ne sentono la necessità urgente siano anche capaci di sacrificare il dovuto per raggiungere la meta).

Se in Terra si sta come si sta, anche là sotto le cose non vanno meglio. Come il Cristo spaesato di Oh mio Dio!, anche il suo collega ctonio avrebbe bisogno di un aggiornamento alla versione 2.0. A confermarlo è La solita commedia – Inferno (farsaccia messa insieme dalla ghenga de I soliti idioti), dove i dannati che approdano agli inferi hanno commesso peccati troppo moderni per cui Minosse possa attribuire loro una giusta pena.

Il caos regna ovunque. In The Place Satana in persona staziona in un bar di Roma e nessuno si domanda chi sia e coma mai sia in grado di esaudire le richieste della gente esigendo in cambio dazi impossibili da pagare (tanto più onerosi quanto più smodato è il desiderio espresso dal disgraziato che gli si rivolge per chiedere più vita per il marito morente o una notte di sesso bollente con la più bella delle donne al mondo).

Non deve quindi stupire se in due film diversissimi tra loro come Il vizio della speranza e Troppa grazia (e accomunati forse soltanto dall’essere usciti lo stesso giorno) la spiritualità e una religiosità declinata in forme assai differebti faccia capolino insinuandosi tra le pieghe dolorose del cinema di Edoardo De Angelis e quelle di surreale sospensione di Gianni Zanasi.

 

Il vizio della speranza. Lungo la via Domiziana, a nord di Napoli quanto basta per non sentirsene schiacciati ed essere in provincia di Caserta, fin dagli anni ’50 una speculazione edilizia selvaggia inseguì il sogno di creare una nuova Rimini sul litorale sabbioso interrotto solo dall’estuario del Volturno che si getta nel Golfo di Gaeta proprio in quella lunga striscia di pianura piatta.

Di quel sogno oggi non restano che macerie e degrado. Tra rottami di stabilimenti balneari, rifiuti accatastati da anni e ormai parte integrante del paesaggio, case sventrate dalle mareggiate come in un bombardamento balcanico e strade lasciate in preda alla delinquenza comune (con una popolazione di migranti illegali doppia dei residenti autoctoni), Castel Volturno sembra il set ricercato di un film sulla sopravvivenza in Terra dopo un conflitto atomico.

Quello che sembra lo scenario costosissimo di un remake di Blade Runner senza replicanti da cacciare ma con la stessa pioggia battente figlia di un inverno globale che penetra uomini e cose come un virus di durata annuale è invece l’immagine realistica di una landa desolata di terra dove la disperazione di una routine senza domani è la sola sintassi della vita.

Il quarto film di Edoardo De Angelis (dopo Mozzarella Stories, Perez e soprattutto l’enigmatico Indivisibili) si svolge tutto in questo limbo purgatoriale in cui un manipolo di anime variamente in pena si aggrappa al proprio male di vivere senza avere nemmeno l’illusione di poter un giorno vedere quella luce che il grigiore plumbeo del cielo e del cuore pare aver relegato per sempre in un altrove aldilà dell’immaginazione.

È qui che infagottata in una felpa con cappuccio e doc martens ai piedi si aggira Maria, ex ragazza cui la Vita non ha dato il tempo di essere bambina convertendola troppo in fretta in una maschera atarattica del tutto a proprio agio tra i cumuli di rifiuti e le macerie urbanistiche dei molti non-luoghi identici in cui vaga apparentemente senza meta.

In compagnia di un fido pit bull femmina, bruna e imbronciata sotto il cappuccio quasi sempre sollevato sulla testa, Maria segue ogni giorno una routine alienante che sembra la sua sola ragione di esistere. Moderno Caronte in gonnella, traghetta infatti da una riva all’altra del Volturno ragazze di colore in avanzato stato interessante e le consegna a una donna calva di gran lunga più inquietante di qualunque guardiano infernale.

Sulle prime non è chiaro in cosa consista questo viaggio sulle acque limacciose e putride del Volturno. Ma poi anche lo spettatore meno incline al disincanto fa in fretta a rendersene conto da solo. Da quelle parti va forte la maternità surrogata e le ragazze di colore (per lo più nigeriane) che Maria traghetta sono prostitute che per pochi euro accettano di rimanere incinte per poi cedere le proprie creature a chi si può permettere di comprarle.

Parte dell’ingranaggio infernale che produce gravidanze a catena per alimentare il mercato nero delle adozioni clandestine, pur nella sua apparente indifferenza a tutto, Maria prende ordini da un boss molto particolare. E cioè Zi’ Maria, una guappa in guanti bianchi che gestisce la tratta delle puerpere e che annega il disgusto della propria esistenza nell’eroina che si fa iniettare su base quotidiana come un farmaco contro l’orrore che la circonda.

Tutto sembrerebbe procedere cristallizzato in un eterno presente senza futuro se non fosse che un evento inaudito spezza la catena di questa routine del degrado: Maria scopre di essere lei stessa incinta. Sapendo di essere destinata a fare la fine di quelle disgraziate che lei traghetta ogni notte, e dopo averne aiutata una che decide di tentare la fuga per tenersi la creatura che ha in grembo, anche Maria s’illude di poter fare lo stesso.

Ad aiutarla in questo folle viaggio verso la speranza è il solo personaggio maschile di una vicenda dominata da sole donne (bianche e nere senza grosse distinzioni) che nel film fanno tutto quello che di solito è appannaggio del sesso forte in àmbito criminale: un giostraio emarginato da tutto e tutti che a Maria è in qualche modo misteriosamente legato perché molti anni prima era stato accusato di aver abusato di lei nel giorno della prima Comunione.

Ed è anche grazie a lui che Maria si lascia prendere dal “vizio della speranza” (“Ti è venuta questa stronzata della speranza, ti sei fatta contagiare. State tutti fissati con la libertà: è così bella la schiavitù, con i premi e le regole”, le ringhia roca la mezzana che ha in mano tutto il gioco delle maternità surrogate quando capisce che la carnefice sta passando dalla parte delle vittime perché è nella loro stessa condizione).

Girato interamente in questi luoghi di immane degrado urbanistico e morale, Il vizio della speranza è stato premiato dal pubblico all’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma. Il che non deve stupire. Non fosse altro perché si tratta di un’idea di cinema, quella di De Angelis ribadita anche qui, che ha poco da spartire con la serialità imperante che domina la produzione di casa nostra, dove tutti hanno l’ambizione di raccontare il presente senza però rendersi quasi mai conto di riprodurne un’immagine artefatta.

Il vizio della speranza è il racconto di non-vite in un non-luogo dove tutto sembra essere il contrario di quello cui si può credere come a qualcosa di veramente “reale”. Un “reale” così esageratamente autentico e credibile che si impiega pochissimo a recepire come una sorta di esagerazione in chiave fantasy. Come un brutto sogno da cui ci si vorrebbe risvegliare ma che invece ti si incolla addosso con la stessa prepotenza di un cappotto fradicio in piena estate.

Quello di Edoardo De Angelis è un cinema non per tutti. Ma soprattutto non per chi è debole di stomaco e ha paura di affrontare l’orrore che brulica nei tanti limbi che al mondo sono repliche di questa Castel Volturno della nostra anima (persa). Un cinema che ancora una volta mette al centro del suo respiro angosciato l’abuso del corpo della donna.

Fenomeno da baraccone in Indivisibili dove l’anomalia della Natura era data in pasto al godimento del voyeurismo più torbido e malato, qui il corpo della donna è invece oggetto di lucro. Dovrebbe essere il tramite tra l’idea della Vita e il suo prendere forma dopo nove mesi di gestazione. E invece qui è solo un parcheggio temporaneo dove il guasto del benessere sguazza a piacimento

Pur non essendo esente da difetti (vedi l’insistenza dei richiami religiosi nei troppi rimandi onomastici – due Marie, due Fatime e una Virgin – a un culto mariano immagine della Vita che nasce dalla purezza illibata di un’eterna Vergine, ma anche qualche caduta stucchevole come la scena del cavallo al ralenti sulla spiaggia o il finale un po’ zuccherato con Maria, il giostraio e la figlia di una delle mammane nere a formare una sorta di neo-famiglia trinitaria), questo quarto film di Edoardo De Angelis ha tutte le carte in regola per imporsi come uno dei prodotti più importanti dell’intera stagione in corso.

E molto lo deve alla prova di Pina Turco, moglie del regista nella vita, che lavora per sottrazione per creare un personaggio capace di imporsi nella memoria pur parlando pochissimo e affidando a infinite variazioni espressive il maturare del vizio destinato ad affrancarla. Così come all’incredibile colonna sonora di Enzo Avitabile che da sola, coniugando tammuriate della tradizione partenopea a musiche tribali di un’Africa della mente, riesce a rendere ancora più credibile questo viaggio agli inferi senza ritorno.

Troppa grazia. Lucia non ha una vita facile. Fresca reduce dalla fine tempestosa della relazione con il collega Arturo e madre single di una ragazzina adolescente alquanto particolare avuta quasi per errore quando aveva 18 anni, è una geometra free lance molto pignola e scrupolosa che però fa i salti mortali per arrivare alla fine del mese. Al punto da imbucarsi di soppiatto nei cantieri altrui per risolvere problemi di progettazione senza che nessuno glielo chieda e nella speranza che il direttore dei lavori la paghi poi in nero per avergli tolto le castagne dal fuoco.

Quando il sindaco (nonché suo vecchio amico) del piccolo centro rurale della Tuscia dove vive le offre di effettuare la mappatura di un terreno su cui deve sorgere un imponente centro commerciale destinato a ridare fiato e speranza a un’area economicamente depressa, Lucia non può quindi rifiutare. Senza però poter immaginare che il lavoro le è stato offerto proprio perché disperata e pronta a tutto.

Ma non appena si mette al lavoro, capisce però subito che nel terreno scelto c’è qualcosa che non va. Le mappature realizzate in precedenza non coincidono infatti con le misurazioni puntigliose che lei effettua. Il perché di questa vistosa incongruenza non è chiaro e lei vorrebbe andare a fondo della questione.

Quando un giorno vede apparire come dal nulla nel mezzo del campo brullo che sta mappando una donna apparentemente male in arnese che le rivolge frasi sconnesse in una lingua per lei incomprensibile, tutto prende una piega insolita e surreale. Sulle prime Lucia la scambia per una profuga qualunque e fa anche il gesto di darle gli spiccioli che ha in tasca.

Ma quando la donna le ricompare all’improvviso in cucina come in un film dell’orrore a basso costo e le fa capire di essere visibile soltanto da lei (la figlia Rosa è lì a un passo e infatti non la vede), si mostra per quello che è in effetti è. Ovvero la Madonna in persona venuta a farle visita per consegnarle un messaggio che di fatto è un’ingiunzione: sul terreno che sta mappando per il Comune dev’essere costruita una chiesa e il compito di Lucia è di convincere autorità politiche locali e potenti investitori a recedere dal progetto.

Di fronte al persistere della visione, anche il razionalismo cartesiano che governa la mente della geometra perde progressivamente colpi: dopo un iniziale sconcerto e una successiva fase in cui tenta di affrontare scientificamente il “problema” rivolgendosi all’aiuto di uno psicologo, Lucia deve accettare la realtà di fatto. Non è per niente pazza come ha creduto e la donna che lei sola vede è davvero la madre di Dio. Che per vincere la sua riluttanza non esita a menare le mani in un paio di scene di wrestling soprannaturale che sono uno dei momenti più spassosi di questa commedia venata dai toni del fantasy.

«Vedo la Madonna, ci parlo, ci litigo, ci meniamo». È così che la protagonista (una potente Alba Rohrwacher finalmente libera di disegnare un personaggio dinamico lontano dagli stereotipi di attrice impegnata e un po’ nevrotica che certo cinema culto le ha cucito addosso) definisce il proprio rapporto con la Vergine Maria quando la gente del paese inizia a farsi domande sulle sue stranezze comportamentali e assiste impotente a una serie di rappresaglie divine con cui Maria intende far capire a tutti di non voler affatto scherzare nella sua protezione del luogo in cui si vuole invece edificare una cattedrale del lusso e del profitto.

Dopo Nella mischia, Non pensarci e La felicità è un sistema complesso, il 53enne modenese Gianni Zanasi torna sugli schermi col suo quarto film in undici anni di carriera. E lo fa con una pellicola che non ha nulla a che vedere con buona parte del cinema italiano di questi anni, anche se sceglie il registro surreale del grottesco per parlare della crisi di spiritualità e della superficialità che affligge l’Italietta dei giorni nostri.

Scritto a otto mani da Zanasi stesso con Federica Pontremoli, Giacomo Ciarrapico e Michele Pellegrini e fotografato in toni pesantemente saturi ma efficacissimi dal fido Vladan Radovic (già con Zanasi per La felicità è un sistema complesso) Troppa grazia si è aggiudicato a Cannes il premio Label Europa Cinemas che nella sezione della Quinzaine des Réalisateurs viene assegnato al miglior lungometraggio proveniente dal Vecchio Continente.

Stra-ordinario nel suo voler trattare in maniera materialmente ordinaria un’epifania del soprannaturale in un’epoca più propensa a credere in ciò che legge sulla rete piuttosto che affidarsi ai pilastri dogmatici della propria antica tradizione, questo cocktail di commedia grottesca, indagine sul sacro e riflessione sulle magagne dell’Italietta di sempre ha il pregio di partire dalla storia di una crisi individuale per applicare la sua corrosiva lente d’ingrandimento alla crisi di un intero sistema.

Se Lucia viene scelta per la mappatura è soltanto perché il sindaco suo amico la sa disperata e quindi pronta a “chiudere un occhio”. Un tema – quello del disattendere le norme in nome dell’amoralità diffusa – che ricorre per tutto il film e mette il dito in una delle tante piaghe morali figlia di decenni di malcostume nazionale. E cioè la speculazione edilizia e la distruzione del paesaggio qui felicemente coniugate con un altro evergreen tutto italiano quale il culto mariano.

Una fausta congiunzione di lune questa che riesce a trascinare nella ricca lista di tasti dolenti toccati anche quello della preservazione di un territorio troppo a lungo umiliato proprio da quella naturale propensione allo sfruttamento da mala edilizia rappresentata dalla ghenga di chi vuole violarne una fetta ariosa di Natura (le terre mozzafiato della Tuscia meridionale) spacciando per approdo della modernità quella che è una bieca speculazione.

Come in Lazzaro felice, anche qui per svegliare le coscienze troppo a lungo intorpidite dalla quiescenza al “tanto fanno tutti così” ci vuole un miracolo. Peccato però che capiti alla persona sbagliata nel momento sbagliato. Una donna ancorata disperatamente alla terra che le sfugge sotto i piedi e che inizia a credere di essere davvero al cospetto della Madre di Dio solo quando questa la affronta come su un ring o si manifesta in tutto il suo potere allagando le strade di un paese in una scena di potenza biblica.

Coinvolgente nella prima parte con la costruzione in crescendo del personaggio di Lucia contrapposto alla bassezza dell’umanità che la circonda e nobilitato dall’epifania mariana che fa da detonatore alla sua crisi interiore, Troppa grazia pecca in alcune scene di eccessiva durata così come nel finale esplosivo (è il caso di dirlo pur senza voler anticiparne l’epica detonazione) che arriva a risolvere un po’ artificiosamente il relativo cul de sac in cui la sceneggiatura si ingolfa quando la protagonista decide di assecondare voleri superiori trasformandosi in eroina romantica in lotta contro il marciume che impera.

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