Quel manicomio di Celestini


Intervista all’autore di La Pecora Nera in occasione dell’anteprima al Sivori

Ascanio CelestiniHa sorpreso tutti, lo scorso settembre, con la partecipazione del suo primo film in concorso alla Mostra di Venezia, pare addirittura al posto di quello di un maestro come Pupi Avati. Visto fino ad allora solo come uomo di teatro e di scrittura, Ascanio Celestini ha portato sul grande schermo il suo spettacolo-libro più famoso La pecora nera, ottenendo un riguardevole successo di critica e, cosa non secondaria, trattando una problematica sociale, quella dei manicomi, con un film asciutto, che non cede mai il passo a sentimentalismi né a ideologismi. Evento raro nel panorama cinematografico italiano odierno. Gli abbiamo rivolto qualche domanda in occasione dell’anteprima genovese del film alla Sala Sivori.
La pecora neraNella sua carriera c’è un po’ di tutto: spettacoli teatrali, libri, musica, radio, televisione. Come mai il cinema è venuto per ultimo?

“Non è detto che sia l’ultimo… magari ci faccio anche un’opera lirica! In realtà questo lavoro sulla psichiatria nasce nel 2002 come un documentario-inchiesta che paradossalmente è stato impossibile montare per il troppo materiale: più di 150 ore di interviste con gli infermieri di mezza Italia più tutto il materiale d’archivio. Allora ho iniziato a scriverne e nel frattempo è nata la messa in scena. Il film è arrivato alla fine perché era il percorso più accidentato. Il problema e la ricchezza del cinema è il suo essere descrittivo, al contrario della scrittura o del tipo di teatro che faccio io, molto spoglio. Così con il direttore della fotografia Daniele Ciprì abbiamo cercato di creare una distanza dalle immagini perché il film fosse per quanto possibile evocativo”.

Da dove nasce l’idea della storia?
“Mi sono ispirato ad un fatto vero: un amico orfano entrato in un manicomio per imparare un mestiere finì per per rimanerci 40 anni. In Italia, nonostante la legge 180 del 1978, i manicomi continuano ad esistere: sono gli ospedali psichiatrici giudiziari o certe cliniche private. Luoghi in cui ancora esistono la contenzione e l’elettroshock. I personaggi nella Pecora nera vivono un disagio che è molto vicino a quello che viviamo noi. Questa società è come se ci ripetesse in ogni momento, in ogni prodotto che acquistiamo e consumiamo, in ogni immagine che vediamo alla televisione o scarichiamo dalla rete, in ogni parola che leggiamo: tu stai bene, sei bello, sei giovane, tu non morirai mai. In realtà ciascuno di noi vive un disagio, chi più, chi meno”.

Cosa c’è nel suo immaginario cinematografico, a che tipo di cinema guarda?
“Mi interessa il documentarismo nel cinema di finzione. Girando questo film ho pensato molto a Diario di un maestro di Vittorio De Seta e al suo cinema in generale, che definirei un documentarismo con licenza poetica. Anche le scelte stilistiche vengono da questa necessità: non la camera a mano in funzione estetica di Lars Von Trier ma quella significante dei fratelli Dardenne. Non una colonna sonora vera e propria ma una canzoncina canticchiata e più volte e un carillon che la riproduce”.

(Francesca Felletti)

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