di Renato Venturelli.
“A noi non frega niente dei giocatori, l’abbiamo detto sia a Zoff che a Pippo Inzaghi. Un giorno l’ho detto a Vialli, tu senza di noi saresti solo un borghese in giro per Cremona…”. Daniele Segre torna a dare la parola al mondo ultrà, quasi quarant’anni dopo il film dedicatogli nel 1980, e stavolta si concentra solo sui tifosi della Juve: in particolare sul gruppo dei Drughi, riprendendoli mentre preparano striscioni e scritte, mentre sfilano in strada, si preparano ad andare allo stadio, oppure rispondono diligentemente alle sue domande.
C’è chi sfoggia croci uncinate sulla maglia o la scritta “Boia chi molla”, ma i discorsi tendono a restare per lo più su terreni poco rischiosi. Qualche accenno all’eroina che si era portata via parecchi ultrà negli anni ’80, qualche ragionamento sul fatto che un tempo le curve erano prevalentemente di sinistra mentre oggi sono tutte di destra. C’è naturalmente chi affronta il rapporto contraddittorio con la propria vita privata e col mondo del lavoro quotidiano: qualcuno confessa pure di essere stato sorpreso dal proprio capo mentre allo stadio stava brandendo una spranga, di essersi vergognato per un attimo (l’improvvisa irruzione della vita normale entro i perimetri dello stadio), ma di essere poi comunque rimasto a combattere al fianco dei propri compagni. Quarant’anni fa aveva incontrato soprattutto giovani di estrema di sinistra che sembravano voler sfidare il mondo, dice Segre, mentre oggi ci sono uomini di una certa età e gruppi molto organizzati. Tutti, o quasi, rigorosamente in maglietta nera.
Niente che non si sapesse già, ma del resto lo scopo non era quello di dare giudizi morali: Segre tende a restare per lo più in disparte, cercando di far emergere sullo schermo una realtà gelosa della propria autonomia, che gli interessa per come è, e su cui sarebbe peraltro difficile andare a fondo. Nessuna domanda sul modo in cui si finanziano, quindi. E nessuna domanda su infiltrazioni malavitose, sulla questione della ‘ndrangheta che proprio a proposito di Juve ha occupato le cronache recenti. Tutto comprensibile, compreso il rischio di ritrovarsi sospesi tra lo sguardo antropologico e i confini dello spot promozionale, ma anche col vago malessere che incombe in un campo dove quarant’anni fa si vedevano soprattutto giovani, mentre ora circolano tanti cinquantenni e sessantenni. Ma con la sensazione che il film abbia poi un limite determinato proprio dalla scarsa capacità d’impatto della tifoseria rappresentata.