di Aldo Viganò.
Condannato nel 2010 a sei anni di prigione, con il divieto di lasciare il paese e di non dirigere più film per due decenni, l’iraniano Jafar Panahi continua comunque ad autoprodursi dei film che, grazie al conquistato credito internazionale, riesce a far circolare nel mercato internazionale, usando la vetrina dei maggiori festival europei: da Berlino (“Taxi Teheran”) a Cannes (“This is not a Film”, “Closed Curtain”), sino a questo “Trois Visages” che ha recentemente vinto sulla Croisette il premio per la migliore sceneggiatura.
Coerente con quell’idea di cinema che ha imparato come assistente dello scomparso Abbas Kiarostami, Panahi continua così “clandestinamente” a raccontare il suo Iran, rappresentandolo con amore come un crocevia di contraddizioni tra conservatorismo e innovazione, tra repressione e lotta per la libertà.
Temi, questi, che in “Tre volti” si coniugano soprattutto intorno a quello della condizione della donna, impersonificato in questo caso da tre generazioni diverse. Al centro della storia c’è l’attrice Behnaz Jafari nel ruolo di se stessa: cioè, di quello di una diva cinematografica diventata famosa anche nei territori più sperduti del paese, nel quale, come dice una battuta del film, le antenne paraboliche sono più numerose delle persone che vi abitano. È lei infatti che, ricevuto lo shockante video del suicidio di una ragazzina con ambizioni artistiche che cerca invano di fuggire dal clima oppressivo delle montagne in cui abita con la propria famiglia, convince il suo amico regista ad accompagnarla in macchina alla sua ricerca, iniziando così un viaggio di cui Panahi in persona diventa insieme protagonista e testimone del proprio paese.
Un paese, l’Iran, fatto di strade sterrate e di regole imposte dalla tradizione. Abitato da persone anche ferocemente maschiliste, ma sempre disposte ad accogliere con gentilezza i forestieri. Un luogo in cui le donne non possono che piegarsi alla volontà di padri e di fratelli e dove ai “diversi” non resta altra scelta che ubbidire o isolarsi e sognare una poco possibile fuga..
Ed è qui, nell’estremo nord-ovest dell’Iran, che nel film di Panahi si incontra anche il terzo “volto” femminile, pur sempre negato alla sua cinepresa: quello di un’anziana attrice, molto famosa prima della rivoluzione di Komeini, ma ora costretta a vivere isolata da tutti, con la sola consolazione della propria pittura. Ed è sempre lì che la ragazzina suicida riesce finalmente ad attirare a se l’attenzione del mondo in cui sogna di entrare.
La funzione emblematica ed esemplare di questi tre volti di donna è testimoniata da Panahi con un linguaggio limpido e chiaro fatto di lunghi piani sequenza, che hanno una valenza insieme descrittiva e indagatrice, alternati a piccoli episodi di vita quotidiana: la ricerca della ragazza, il rito del te davanti alle case fatte di sassi, l’evento del toro che dovrebbe arrivare a fecondare le vacche, il rito del clacson per segnalare la strettoia della strada.
Nasce così, poco alla volta, la descrizione di una comunità montana statica ma orgogliosa, in cui c’è la storica rassegnazione dei vecchi ma inizia a farsi strada anche il forte spirito di ribellione dei giovani. E ben presto vi emerge con evidenza che la cinepresa di Panahi sta raccontando la parte per il tutto: cioè, che il suo sguardo su quella società arcaica si sta allargando dalla condizione della donna in quel mondo rurale alla messa in discussione di un’intera nazione. Sia quella odierna con i suoi tabù religiosi, sia quella le cui radici affondano nella storia dell’antica Persia.
In questo senso, Panahi si conferma, ancora una volta, autore di un cinema dalla forte testimonianza civile e politica. Un cinema che nel nome di questa testimonianza è disposto a mettere in sordina le potenzialità narrative che pur s’intravvedono tra le pieghe delle varie situazioni drammatiche appena accennate. Un cinema, quello di Panahi, che, rinunciando di fatto alla dialettica dei conflitti drammaturgici, suggerisce l’idea che per un artista in Iran è questo ancora solo il tempo di descrivere il mondo. Con l’auspicio però che non sia troppo lontano il momento di poterlo finalmente rinnovare, questo mondo.
TRE VOLTI
(Iran, 2018) regia: Jafar Panahi – sceneggiatura: Jafar Panahi e Nadar Saeivar – fotografia: Amin Jafari – montaggio: Mastaneh Mohajer e Panah Panahi. interpreti e personaggi: Behnaz Jafari (se stessa, l’attrice), Jafar Panahi (se stesso, il regista), Marziveh Rezaei (se stessa, la ragazza), Narges Delaran (la madre). distribuzione: Cinema distrib. – durata: un’ora e 42 minuti