di Guido Reverdito.
In queste ultime tre settimane le uscite nelle sale hanno riproposto per l’ennesima volta una dicotomia produttiva e distributiva che affligge il cinema di casa nostra condizionandone lo stato di salute come un herpes sotterraneo che nessuna cura sembra in grado di sconfiggere impedendogli di riaffiorare in superficie con preoccupante costanza.
E cioè la compresenza di prodotti di un cinema di elevata rarefazione e vocazione all’impegno accanto a prodotti usa e getta la cui unica ambizione è quella di offrire dell’intrattenimento per palati poco esigenti nascondendo la pochezza dei soggetti affrontati dietro la presunta volontà di raccontare il paese di oggi e le sue storture con un vago approccio sociologico all’acqua di rose
E se i primi, penalizzati come sono da miopie distributive che li relegano ai margini del circuito canonico ostracizzandoli del tutto nelle sale o costringendoli a uscite in limitate aree del paese, finiscono per non essere visti del tutto e scomparire dopo un battito di ciglia nel dimenticatoio generale, i secondi approdano invece nelle sale (sia in quelle tradizionali che nei multiplex) finendo però ugualmente fagocitati dalle leggi del botteghino e collezionando teniture che li apparentano immediatamente ai prodotti di alto profilo culturale e intellettuale.
Ed è così che in queste ultime tre settimane di programmazione (ovvero l’ultima di ottobre e le prime due di novembre), quando la distribuzione sta già iniziando a scaldare i motori per lanciare la volata ai titoli che dovrebbero fare cassetta in zona natalizia, si è assistito all’uscita quasi in contemporanea di titoli molto sofisticati o per lo meno “particolari” per alcune peculiarità di soggetti trattati quali Achille Tarallo di Antonio Capuano, Menocchio di Alberto Fasulo, e Il ragazzo più felice del mondo di Gipi cui hanno fatto da stonato contraltare prodotti da consumo popolare quali Ti presento Sofia di Gulio Chiesa, Uno di famiglia di Alberto Maria Federici e l’indefinibile pout-pourri di Cosa fai a Capodanno? di Filippo Bologna.
A fare da cuscinetto due titoli di big quali Euforia, seconda e convincente prova dietro la macchina da presa di Valeria Golino, e Notti magiche, amarcord à la Sorrentino con cui Paolo Virzì ha spiazzato il pubblico dei suoi numerosi sostenitori, confezionando una storia di formazione a metà tra l’autobiografismo nostalgico e la caricatura a tinte forti del jet set cinematografico della Roma degli anni da bere.
Achille Tarallo. Se si prende in prestito la nota contrapposizione tra apocalittici e integrati introdotta dal noto saggio di Umberto Eco del lontano 1964 e si utilizzano queste sue due categorie di lettura di possibili rapporti di armonia o disarmonia con la cultura di massa in genere, la figura di Antonio Capuano – qui al suo decimo film – sarebbe titolare inamovibile in una ideale top ten degli autori che viaggiano da sempre ai margini del mercato ufficiale che sembra ignorarne testardamente sia il talento che la capacità a tratti visionaria di leggere in anticipo i sussulti della società storta in cui ci barcameniamo.
E lo strano è che gli esordi di Capuano erano stati col botto. A partire da Vito e gli altri, l’esordio del 1991 che, premio Solinas per la miglior sceneggiatura, fu poi eletto miglior lungometraggio alla Settimana della Critica veneziana e vinse anche un Nastro d’argento come migliore opera prima. Per non parlare poi di Pianese Nunzio, 14 anni a maggio del 1996, folgorante ritratto di un religioso diviso tra la lotta alla presenza pervasiva della Camorra nei difficili quartieri del centro storico napoletano e la condizione della propria omosessualità a sfondo pedofilo.
Da quel momento in poi per il cinema di Capuano è iniziato un incomprensibile ostracismo, forse in parte involontariamente favorito la decisione di Walter Veltroni di far uscire in piena estate Polvere di Napoli, cinque episodi scritti dal regista napoletano con Paolo Sorrentino (che in più di un’occasione ha riconosciuto non pochi debiti del suo cinema nei confronti della “lezione” di Capuano), il cui intento era quello di aggiornare il capolavoro di De Sica L’oro di Napoli offrendo una nuova lettura della napoletanità doc.
Dall’inizio del nuovo millennio questo percorso a ostacoli è diventato un inno al desaparecido. Nel senso che buona parte dei film scritti e diretti da Capuano sono stati in pochissimi a vederli. Il che pare del tutto incomprensibile se si pensa alla complessità narrativa di Luna rossa del 2001 (dove l’ascesa e caduta dalle stelle alle stalle di una famiglia camorristica viene ripercorsa sullo schema dell’Orestea di Eschilo) o ancora a Bagnoli jungle (con tre generazioni a confronto sullo sfondo dell’ex gloriosa acciaieria chiusa nel ’92), acclamato come film di chiusura della Settimana della critica veneziana del 2015 e poi ignorato in toto dal mondo della distribuzione.
Achille Tarallo è la sua decima fatica di sceneggiatore e regista. Rispetto a buona parte dei titoli usciti nelle sale a singhiozzo o non usciti affatto a partire da I Vesuviani (nel quale Caputo aveva firmato lo stralunato episodio Sofialorèn, storia d’amore tra un resistente al degrado e un polpo), questa farsa sbracata ma geniale ha almeno avuto la fortuna di essere distribuita in maniera tradizionale su scala nazionale.
L’Achille del titolo è un autista di autobus napoletano che, sposato con un’arpia e padre non troppo entusiasta di tre creature, arrotonda il magro salario cantando nei matrimoni la sera o nel fine settimana. E fin qui sarebbe tutto in linea con una veracità partenopea doc che non lo farebbe discostare granché da mille altre ipostasi di questa malattia cronica che è l’essere incarnazione dei tic genialoidi di un popolo con vocazione perenne all’arte del sopravvivere e del canto come rimedio al male di vivere.
Come ogni semi-disperato senza troppo futuro che si rispetti, anche Achille ha però un sogno nel cassetto: diventare uno chansonnier famoso come Fred Buongusto. Il che potrebbe anche non essere un’ambizione troppo mal riposta, visto che Napoli è – tra le tante altre cose – non solo la patria di una delle più ricche tradizioni canore regionali del paese, ma anche la terra fertilissima in cui il fenomeno dei cantanti neomelodici è nato e divenuto una manifestazione di massa anche oltre gli angusti confini della terra partenopea.
Ma a Capuano piace mischiare le carte in tavola, stravolgere lo stereotipo prevedibile e prendere in contropiede lo spettatore. Se Achille ambisse alla gloria inserendosi nel fortunato filone dei crooner neomelodici (sempre a cavallo tra arte e malavita come tanto cinema e serie TV hanno mostrato), tutto rientrerebbe appieno nella macchietta costruita a orologeria per sbeffeggiare una volta di più una certa napoletanità da cartolina.
No. Achille vuole sfondare cantando in italiano. Perché liberarsi del dialetto verrebbe a essere il primo passo verso un’emancipazione prima artistica e poi esistenziale, col fardello greve del binomio città-famiglia visto come ventre uterino da cui sfuggire per sempre. Rinnegare le proprie radici sarebbe per lui poter finalmente spiccare il volo verso una realtà priva di quelle zavorre socio-culturali e ambientali che lo hanno esiliato dal resto della modernità confinando il suo essere in un orizzonte bidimensionale da souvenir nostalgico.
Coadiuvato dal partner in crime Cafè (interpretato magistralmente dal vero neomelodico Tony Tammaro, idolo di almeno due generazioni di napoletani doc e autore anche dei testi e delle canzoni del film), e sostenuti dall’improbabile manager romano Pennabic che ha invece la faccia di Ascanio Celestini (altro irregolare chiamato a raccolta da Capuano per questa sua dissacrazione critica del mito di una città), Achille propone ai matrimoni un repertorio che già solo nel titolo – Tamarro italiano – è più di un programma politico di emancipazione del provincialismo stereotipato.
Achille Tarallo è una commedia farsesca che ha l’ambizione di mettere alla berlina – anche se con l’affetto di un padre che dia un buffetto a un figlio reiteratamente discolo – il cumulo di luoghi comuni la cui associazione ha da sempre dato vita alla più vieta concezione della napoletanità nel mondo nella sua versione crassamente folkloristica.
Ma se questo è l’intento di base che informava di certo Capuano all’atto della scrittura (attenta a disegnare in Achille un antieroe cui non è difficile affezionarsi non ostante nella vita di tutti i giorni sia un cumulo amorale di difetti vissuti come se fossero ordinaria quotidianità condivisa da un’intera città), non si può dire che il risultato finale sia però in linea col progetto di partenza.
Il film mette sì alla berlina un insieme di tic antropologici che sono il brand da esportazione di un mondo. E lo fa confermando come Capuano sia un paladino incrollabile di un cinema dispari, deciso a non allinearsi mai alla corrente delle mode sulla cresta dell’onda, cercando sempre di ritagliarsi una propria voce autentica all’interno del coro monocorde delle troppe fotocopie già esistenti in giro.
Ma alla fine, complice anche la sostanziale assenza di una trama vera e propria (con lo script che progressivamente perde di vista la ricerca di affermazione artistica di Achille virando su un esiguo subplot a tinte romantiche e poi lasciandosi attrarre dalle sirene di un finale sgangherato), quel che resta impresso nello spettatore non è tanto la tentata ribellione di Achille alla tirannia degli stereotipi, quanto proprio quel collage di luoghi comuni che il film affastella nella lunga ed efficacissima presentazione iniziale dei personaggi, a loro volta compendi onnicomprensivi di tutto quel che rende napoletano un napoletano doc.
Ed è un peccato soprattutto per Biagio Izzo che – partenopeo verace che questo fardello etnocuturale l’ha vissuto in prima persona essendo nato e cresciuto in un piccolo centro della cintura vesuviana con otto fratelli – con questo film ha avuto il ruolo di una vita. Un antieroe larger than life che gli ha permesso di farsi finalmente apprezzare nelle vesti di mattatore a tutto campo e non più figurina di contorno nelle tante farsacce pecorecce cui per troppi anni ha prestato la sua bella faccia scolpita nella lava vesuviana.
Menocchio. Se si vuole parlare di apocalittici non integrati nel sistema, anche Alberto Fasulo non fa fatica a trovare un posto in questa squadra ideale di non allineati alle leggi di mercato. Al suo primo lungometraggio di finzione autentica (anche se si tratta di un biopic molto sui generis) dopo due documentari e il docufiction di TIR al quale nel 2013 andò a sorpresa il premio come miglior film in concorso alla Festa del cinema di Roma, con Menocchio questo talentuoso e coraggioso documentarista friulano affronta un tema lontano anni luce da quelli presi di petto fino a oggi a partire dall’esordio di Rumore bianco.
Al centro di questa rarefatta ricostruzione biografica c’è infatti la storia di Domenico Scardella detto Menocchio, oscuro mugnaio vissuto alla fine del XVI secolo in un piccolo paesino friulano. Di lui non sarebbe rimasta traccia alcuna negli annali della grande Storia se non fosse che l’essere in grado di leggere e il possedere gelosamente in casa alcuni rari libri lo portò a elaborare una rilettura critica di quanto gli era stato imbonito in materia di fede e religione.
Al punto da cominciare a diffondere all’interno della pieve del paesino una serie di idee non troppo in linea col dogma della Chiesa romana. E cioè la convinzione che la dottrina canonica fosse un autentico instrumentum regni e che il vero volto di Dio non fosse da ricercarsi tanto in astrazioni astruse volte solo a condizionare terroristicamente le masse non acculturate, quanto piuttosto nel miracolo della quotidianità. Ovvero nella Vita stessa vista come miracolo permanente e riflesso diretto della volontà di un ente superiore.
Idee che non tardarono ad attirare su questa oscura figura di mugnaio l’attenzione del Tribunale dell’Inquisizione. Processato per eresia una prima volta nel 1583 e poi condannato all’ergastolo, sedici anni dopo e non ostante un goffo tentativo di abiura, Menocchio venne infine condannato alla massima pena (anche se di lui si sa solo che non si hanno più notizie dopo il 1599, lasciando così spazio all’ipotesi di un’esecuzione avvenuta all’interno del carcere di Portogruaro dove era rinchiuso).
Questa vicenda era stata rivelata al mondo dal celebre saggio di Carlo Ginzburg I formaggi e i vermi. Uscito nel 1976 e apripista della via italiana alla modello francese degli «Annales» di storiografia fatta dal basso, cioè partendo da chi la grande Storia l’aveva sempre subita in qualità di subalterno e mai vissuta da protagonista, quel saggio illuminante è stato anche il punto di partenza per il lavoro di Fasulo.
Il quale non si è però limitato a usare questa fonte, rivolgendo la propria attenzione anche alle ricerche di Andrea Del Col, storico dell’Inquisizione e della Controriforma che, quindici anni dopo il volume di Ginzburg, nel saggio Domenico Scandella detto Menocchio. I processi dell’Inquisizione (1583-1599) portò alla luce ulteriori documentazioni di carattere archivistico che contribuirono a definire con maggiore precisione i contorni della vicenda umana di questo eroe del libero pensiero travestito da umile mugnaio.
Guardando a modelli altissimi del calibro di Rossellini e Bresson (ma senza dimenticare l’austera severità di approccio del cinema storico di Paolo Benvenuti, e in special modo del suo Gostanza da Libbiano), Fasulo parte da queste accurate ricostruzioni cartacee per creare un personaggio vivo in carne e ossa da proiettare con rigore e assoluto equilibrio tra sobrietà e ricerca del vero sul contesto storico, sociale e culturale nel quale la vicenda umana di Menocchio va inquadrata.
Come già in TIR, anche in questa sua prima autentica avventura nella fiction dura e pura è Fasulo stesso a gestire la macchina in qualità di operatore. Ed è così che il prolungamento meccanico del suo occhio sfoca intenzionalmente sugli sfondi (come se il contesto, seppur determinante, fosse meno importante del testo stesso), inseguendo e pedinando da vicinissimo i corpi e i volti dei suoi personaggi che diventano così creature reali proprio perché lo spettatore ne testimonia lo spasimo dell’anima disegnato sulle rughe dei visi.
In questo un aiuto enorme glielo dà Marcello Martini, l’attore scelto per interpretare il difficile ruolo di Menocchio. Ex impiegato dell’ENEL in pensione da pochi giorni e privo di qualsivoglia esperienza pregressa nel mondo della recitazione, Fasulo lo scelse quasi per caso mentre stava facendo del casting dal vivo in tre diverse valli friulane dove l’epopea di libertà e repressione con al centro il mugnaio ribelle si era realmente svolta.
Il suo Menocchio sembra il prodotto di un lavoro di appropriazione-personificazione da Actor’s Studio. Ma non c’è nulla di più sbagliato in una lettura di questo tipo. Soprattutto perché Fasulo lavorava con la tecnica dell’instant movie, girando il film in sequenza cronologica e facendo sì che la sua truppa di attori non professionisti (tutti rigorosamente scovati in loco) arrivasse sul set senza aver imparato preventivamente le battute ma contribuendo a scrivere giorno dopo giorno il film con la loro diretta collaborazione.
La componente storica alla base di questa rigorosa ricostruzione effettuata su documenti e fonti primarie quali gli atti del processo ai danni di Menocchio ma anche su fonti pittoriche coeve (come dimostra lo straordinario uso della luce negli interni) non porta però a uno scollamento della vicenda dalla realtà dei giorni nostri. Tutt’altro.
La figura di questo semi-analfabeta che dochisciottescamente combatte contro giganteschi ma quanto mai realistici mulini a vento cercando di affermare la libertà del pensiero e la possibilità di reinterpretare criticamente ciò che viene impartito senza lasciare spazio alcuno all’ombra del dubbio è anche un monito all’uomo dei giorni nostri e all’urgenza di ribellarsi alla tirannide delle opinione precostituite e fasulle fondate in genere su false credenze o su leggende metropolitane quasi mai confermabili.
Cosa fai a Capodanno?. Se uno spettatore passasse, per pura ipotesi, dalle rarefazioni e dai rigori visuali di Menocchio a questa farsa un po’ pecoreccia col sapore del pre-cinepanettone, forse stenterebbe a credere che il cinema di casa nostra sia in grado di far convivere realtà lontane come asteroidi esplosi in galassie parallele. Eppure questa è la realtà e non c’è molto che si possa fare per cambiare lo stato delle cose in atto.
Manca ancora parecchio a Natale, ma come le decorazioni appese per le strade e i jingle nei grandi magazzini ora tocca sorbirsi in anticipo anche quelli che un tempo si chiamavano appunto cinepanettoni (etichetta ormai obsoleta dopo trent’anni di dittatura ai botteghini) e che ora vengono più trivialmente presentati come “film di Natale” nella speranza che l’aura un po’ infamante di quella marchiatura non li sporchi ancor prima di approdare nelle sale.
In questa pochade con vaghe ambizioni di ritratto della società italiana dei giorni nostri si prende una serie di strane coppie, le si fa convergere in un isolato e lussuoso chalet di montagna i cui padroni hanno deciso di festeggiare la fine dell’anno con un’originale ammucchiata scambista. Peccato però che nessuno sia quello che dà a vedere di essere e che il sesso promesso (anche nei trailer carichi di ammiccamenti pruriginosi) si converta ben presto in una girandola farsesca con predicozzo finale in perfetto stile “la favola insegna che…”.
Luca Argentero e Ilenia Pastorelli (lui sempre più spaesato e lei sempre più stucchevolmente imbalsamata nella macchietta della coatta della suburra romana) pensano tutti che siano i padroni di casa. In realtà sono una coppia di ladruncoli di appartamento che, poco prima dei titoli di testa, hanno fatto irruzione nello chalet, immobilizzato i veri padroni e si trovano a dover recitare la commedia di quel che non sono, ignari soprattutto del fatto che gli ospiti che progressivamente approdano sono lì per ché in fregola da nottatona scambista.
E scambisti sono uno smarrito Riccardo Scamarcio (con sulla faccia l’espressione di chi non abbia ben capito cosa stia facendo lì) e una rediviva Valentina Lodovini, coppia ruspante che apre e chiude questa ronde da kammerspiele senza però riuscire ad arrivare allo chalet in tempo per partecipare alla commedia degli equivoci: la loro macchina rimane infatti impantanata nella neve e lui ci rimette letteralmente un dito tentando di montare le catene e dovendo così passare buona parte della notte di San Silvestro al pronto soccorso.
Ma il meglio arriva poco dopo. Le due coppie che ancora mancano sono alquanto spaiate. Isabella Ferrari – sciupata quanto basta per essere ormai la candidata ideale a ruoli da femme fatale di provincia – si presenta con quello che tutti pensano sia una sorta di toy boy. In realtà sono madre e figlio (lui stucchevole nerd millenial che sembra scappato da una versione in minore di Animal House) che, fingendosi interessati all’orgia di gruppo, sono invece in missione per recuperare un quadro dipinto dal fu di lei marito e ora ritenuto di grande valore sul mercato.
A chiudere le danze sono Alessandro Haber e Vittoria Puccini. Se lei è una ninfomane dark con vocazione nichilistica, lui è il ritratto del politico arraffone e qualunquista con profonde venature di razzismo xenofobo e l’aggiunta di un pizzico di prurigine in più visto che si associa all’allegra brigata come guardone capace di eccitarsi soltanto al vedere la propria ninfa posseduta da altri maschi.
A dirigere è Filippo Bologna, scrittore in proprio e sceneggiatore in gran voga negli ultimi anni (suoi gli script di L’ultima ruota del carro, Quanto basta, l’ultimo Pieraccioni di Se son rose…, ma soprattutto del fortunatissimo e forse sopravvalutato altro dramma da camera di Perfetti sconosciuti), qui all’esordio nella regia e, forse proprio sulla scorta del grande successo del film di Paolo Genovese, con a disposizione un cast che a ben pochi esordienti è dato di poter dirigere.
Quello che poteva essere un film cattivo capace di azzannare nel vivo della carne una società ormai così malata da essere la semplice parodia dei rituali con cui cerca di esorcizzare il baratro che la attende, Cosa fai a Capodanno? diventa invece lo specchio dell’impotenza creativa di certa commedia italiana di questi ultimi anni.
E cioè un cinema che vorrebbe raccontare la cancrena della società contemporanea italiota affidandone la triste epica a un manipolo di figure esemplari, prese a campione di diversi tratta degenerativi della sua crisi. Figure bidimensionali che però si reggono in piedi solo grazie al bignami di luoghi comuni che ne è il bagaglio caratteriale, finendo con l’essere figurine piatte cui il regista e sceneggiatore si affida per strappare una risata col ricorso al turpiloquio o alle promesse di situazioni pruriginose al cui cospetto anche il più velato dei pornosoft anni ’70 sembrerebbe un azzardo dei sensi.