Una sconfinata giovinezza


Una sconfinata giovinezzaLa dolcezza del nulla
Una sconfinata giovinezza
s’inscrive nella vena intimistica e melanconica del cinema di Pupi Avati. Quella lasciata intravvedere già in Le strelle nel fosso o in Aiutami a sognare, ma che attraversa sovente anche i suoi film più gioiosi e autobiografici, per tornare in superficie in molte sequenze dei recenti La seconda notte di nozze o Il papà di Giovanna.

Difficile dire che questa sia la sua vena migliore, anche perché la serietà del tono sembra sovente indurre il regista a tradurre in eleganza calligrafica quella sua indubbia competenza nello scrivere cinema che altrove ha positivamente concorso a vitalizzare le storie e i personaggi da lui portati sul grande schermo. In Una sconfinata giovinezza, è probabilmente lo stesso tema scelto – la devastante avanzata dell’alzheimer nella vita quotidiana di una coppia borghese di mezza età – a spingere Avati verso un lirismo commosso e partecipe; con il rischioso risultato, però, di trasformare questo tema in una prigione: sia per lo sviluppo narrativo, sia per la definizione dei personaggi. Lino e Francesca sono una coppia affiatata che vive però come una menomazione il fatto di non aver avuto figli. Chi si ammala di alzheimer è lui, redattore sportivo di un quotidiano romano e ospite fisso di trasmissioni televisive: una parola che non si ricorda, un discorso che improvvisamente perde il filo, l’inesorabile fuga verso una blanda demenza senile, che si alimenta di fantasmi del proprio passato di gioventù. Il film racconta questo tragico percorso senza ritorno, alternando il presente con le memorie rivissute dal protagonista, ma preferenziando soprattutto lo sguardo della moglie, docente universitario, che passa con dolore dalla volontà di lottare a momenti di disperazione, dalla materna complicità con un marito ritornato bambino al desiderio di fuggire da una condizione cui è negata ogni via di uscita. Due protagonisti assoluti, ai quali Fabrizio Bentivoglio e Francesca Neri aderiscono con partecipe commozione e che la cinepresa di Avati accarezza con gentilezza. Il rischio della retorica sentimentale è, però, sempre presente nel film, anche perché, mentre da una parte gli attori sono guidati a stare sin troppo vicino al dolore dei loro personaggi, con la conseguenza di renderne il dramma esistenziale quasi astratto; dall’altra, Avati ha scelto di scontornare sin troppo i contorni di questo dramma privato, facendo degli altri personaggi (il caporedattore del giornale, i parenti di lei, i fantasmi della memoria di lui, ma anche il medico, le infermiere e il tassista interpretato da Gianni Cavina) essenzialmente delle funzioni schematiche del racconto, con la conseguenza che il film finisce col cancellare proprio la realtà sociale e la concretezza della vita quotidiana, entro cui quel dramma solo si può definire e alle quali inesorabilmente appartiene.

Una sconfinata giovinezza
(Italia 2010)
Regia e sceneggiatura: Pupi Avati
Fotografia: Pasquale Rachini
Musica: Riz Ortolani
Scenografia: Giuliano Pannuti
Costumi: Stefania Consaga e Maria Fassari
Montaggio: Amedeo Salfa
Interpreti: Fabrizio Bentivoglio (Lino), Francesca Neri (Francesca), Serena Grandi (zia Amabile), Gianni Cavina (Preda), Lino Capolicchio (Emilio), Manuela Morabito (Teta), Erika Blanc (vedova), Osvaldo Ruggieri (neurologo), Vincenzo Crocitti (don Nico)
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: un’ora e 38 minuti

Postato in Numero 90, Recensioni, Recensioni di Aldo Viganò.

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