di Aldo Viganò.
Il turco Nuri Bilge Ceylan (Istanbul, 1959) è autore di un cinema prolisso ed estenuante, ma anche di immagini eleganti e di metafore raffinate. Un cinema che richiede con prepotenza uno spettatore disponibile e complice, il quale sembra esistere ormai solo nei grandi festival internazionali, cui i suoi film sono con evidenza destinati.
Così è stato per il notturno thriller di “C’era una volta in Anatolia” e per il gelido melodramma di “Il regno d’inverno”; e così viene ora confermato da questo “L’albero dei frutti selvatici” che, accolto con entusiasmo dalla critica a Cannes, stenta oggi a trovare un proprio pubblico nelle poche sale in cui viene programmato.
Le cause di questa defezione degli spettatori sono molteplici. La lunghezza del film e la mancanza di un forte impianto drammaturgico. L’assenza di attori di richiamo e il pessimismo di fronte alla condizione attuale del mondo e non solo della Turchia contemporanea, la quale viene raccontata con un distacco che è insieme calligrafico (la struggente bellezza di quel paesaggio autunnale) e verboso (i lunghi dialoghi che contraddistinguono il rapporto del protagonista con gli altri personaggi del film), senza che i due piani riescano a trovare infine una sintesi estetica, pienamente convincente, sul terreno del cinema.
Sinan Karasu, il protagonista di “L’albero dei frutti selvatici”, torna nel suo paese natio con in tasca la laurea in scienze della formazione e in valigia il manoscritto nel quale ha condensato la sue ambizioni di scrittore. Ma lo scontro con la vita quotidiana lo paralizza. Figlio di un insegnante che ha perduta la propria vocazione pedagogica e intellettuale e che dilapida i suoi pochi averi nel gioco, nonché nipote di un vecchio iman che abita in campagna, il giovanotto ciondola nei luoghi della sua infanzia senza una meta precisa. Tra gli alberi del bosco incontra la ex fidanzata di un suo amico, la quale gli comunica che per interesse sta per sposare un anziano e ricco gioielliere. In riva al mare, litiga con il compagno di liceo che si sente tradito dalla scelta di lei. In città, partecipa senza convinzione al concorso per insegnanti e discute con toni provocatori di arte con un celebre scrittore incontrato casualmente in libreria.
Egli decide infine di pubblicare a proprie spese il suo libro e ben presto arriva il tempo della leva militare obbligatoria. Il tempo passa e tutto rimane uguale. Il suo libro non si vende e la religione dei suoi avi non gli dà conforto. Forse ha ragione suo padre nel ritenere che solo nel lavoro della terra sta il senso della vita.
Trascorrono così le tre ore e otto minuti di “L’albero dei frutti selvatici”. Senza grandi avvenimenti o eclatanti conflitti drammatici. Il fondamentale realismo del cinema di Ceylan si concede solo la dialettica di qualche escursione nell’onirico. Quella che domina nelle sue belle immagini è soprattutto la solitudine degli esseri umani all’interno di una natura in continua trasformazione: le foglie autunnali che cadono sotto l’azione del vento e della pioggia.
A lungo andare, il culto estetizzante del cinema di Ceylan diventa così un poco uggioso come troppo ripetitiva risulta essere la sua predilezione per la staticità delle lunghe conversazioni sull’arte (il dialogo con il famoso scrittore abbordato in libreria) o sulla religione islamica (quello a tre con i due imam incontrati a raccogliere mele nel frutteto), destinate a proseguire nel pedinamento degli interlocutori che continuano nel corso delle loro discussioni a passeggiare per le strade della città o della campagna. Ma questa è, in fin dei conti, la vera cifra stilistica di tutti i film di Ceylan. Prendere o lasciare. Agli spettatori che amano questa loro tendenza a procedere con lentezza e con l’accumulo di tante piccole cose quotidiane, evidentemente tutto questo piace e convince. Per quanto riguarda, invece, il pubblico che crede ancora in un cinema fatto di personaggi vitali e di conflitti drammatici, questo ha ormai imparato a tenersi lontano da questo tipo di film in cui non accade nulla, ma dove è proprio il nulla che ambisce infine a diventare il senso narrativo e politico della loro dichiarata modernità.
L’ALBERO DEI FRUTTI SELVATICI
(Ahlat Agaci, Turchia, Macedonia, Francia, Germania, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Svezia – 2018) regiae montaggio: Nuri Bilge Ceylan – sceneggiatura: Akin Aksu, Ebru Ceylan e Nuri Bilge Ceylan – fotografia: Gökhan Tiryaki – scenografia: Meral Aktan. interpreti e personaggi: Dogu Demirkol (Sinan Karasu), Murat Cemcir (Idris Karasu), Bennu Yildirimlar (Asuman Karasu), Asena Keskinci (Yasemin Karasu), Tamer Levent (nonno Recep), Özay Fecht (nonna Hayriye), Ercüment Balakoglu (nonno Ramazan), Serkan Keskin (Suleyman), Akin Aksu (imam Veysel), Öner Erkan (imam Nazmi), Kadir Cermik (sindaco Adnan), Kubilay Tuncer (Ilhami), Hazar Ergüclü (Hatice), Sencar Sagdic (Nevzat), Ahmet Rifat Sungar (Ali Riza). distribuzione: Parthenos – durata: tre ore e 8 minuti