Thessaloniki Documentary Festival 2018 – Splendori e miserie di Rio de Janeiro: Intervista a Evangelia Kranioti

di Massimo Lechi.

Già salutato con favore dalla critica internazionale all’ultima Berlinale, Obscuro Barroco è stato senza dubbio una delle rivelazioni del ventesimo Thessaloniki Documentary Festival. Vera e propria orgia di suoni e visioni, l’opera seconda della talentuosa regista greca Evangelia Kranioti ha bissato i consensi raccolti nel 2015, proprio a Salonicco, da Exotica, Erotica, Etc., strappando applausi e, nella cerimonia di chiusura nel tempio cinefilo dell’Olympion, il Youth Jury Award. Sue le immagini più suggestive del concorso. E suo anche il tentativo più audace di forzare convenzioni e confini del documentario.

Film ibrido e di fatto inclassificabile, sospeso tra il reportage antropologico e il poema visivo, popolato da volti e corpi inquieti incastonati in quadri di ipnotica bellezza, Obscuro Barroco è un viaggio in una Rio de Janeiro scissa e metaforica che pare racchiudere in sé tutte le contraddizioni del mondo. A far da guide nella notte brasiliana, un clown biancovestito e perennemente sgomento, e Luana Muniz, celebre transessuale morta poco dopo la fine delle riprese, la cui figura sformata dalla chirurgia plastica simboleggia l’eterno e inarrestabile processo metamorfico di una città cannibalesca che non può fare a meno di divorare ed espellere le proprie meraviglie e le proprie miserie. Una città-travestito, al contempo notturna e splendente, sensuale e putrida, sempre uguale a se stessa e sempre sorprendentemente diversa.

Come è nata l’idea di Obscuro Barroco?

Prima di tutto dal mio desiderio di rendere omaggio a Rio de Janeiro. E’ stato infatti qualcosa del nuovo mondo, dell’America latina e di Rio in particolare che mi ha fatto sentire, in occasione di Exotica, Erotica, Etc., di voler filmare e basta. Prima fotografavo, scrivevo, facevo interviste: era una ricerca artistica e antropologica più bidimensionale. Poi, all’improvviso, ha fatto irruzione la vita, l’immagine in movimento. Da quel momento mi sono ripromessa di condurre un lavoro approfondito sulla città. Avevo anche una sorta di scadenza: le Olimpiadi. Perciò quell’anno – l’anno della cacofonia, dei media che cercavano di puntare i riflettori sulla Rio cartolinesca, la Rio violenta, la Rio caricaturale eccetera – ho deciso di andare lì e catturare quella che pensavo fosse l’essenza della città.

Un aspetto affascinante del film è dato dal tuo sguardo, che vaga per Rio mantenendo però sempre la propria alterità.

Obscuro Barroco è un film sull’alterità, sulle duplicità. A cominciare dal fatto che sono greca e che ho realizzato un progetto sul Brasile, su un’altra cultura. Ci sono però dei punti di contatto tra la cultura greca e quella brasiliana, e il cuore di questo legame, per me, è la tragedia. La tragedia e, di nuovo, i suoi due elementi: l’apollineo e il dionisiaco – che è Rio. Questo è ciò che volevo esplorare. All’inizio avevo in mente un’installazione, poi piano piano mi sono orientata verso una forma più cinematografica, anche se non lineare.

L’intuizione di porre al centro del film un personaggio transessuale suppongo venga da qui.

Mi ero resa conto che tutto quello che riprendevo aveva come terreno comune la trasformazione, la metamorfosi.  Se avessi voluto un personaggio in grado di incarnare la città, avrebbe dovuto essere un personaggio ermafrodito, ibrido, che avesse spinto la propria trasformazione al limite.

Exotica, Erotica, Etc., al contrario, era tutto costruito su un dialogo continuo tra uomo e donna.

Sì, tra femminile e maschile. Qui invece il femminile e il maschile sono racchiusi in un unico corpo. Il mio primo progetto era sull’irrequietezza, sull’orizzonte, sulla voglia di fuga. Mentre Obscuro Barroco è su un altro tipo di irrequietezza, interno al corpo: il desiderio di trasgredire.

Inoltre stavolta lavori all’interno di un perimetro preciso, che è appunto la città.

Sì, è un territorio specifico. E allo stesso tempo è uno specchio: la città è l’immagine di quel personaggio, di Luana Muniz. Se Rio fosse una persona, sarebbe un travestito.

Come hai scelto Luana Muniz?

Quando ho iniziato a interessarmi alla comunità queer di Rio sono andata a chiedere il permesso di riprendere nella sua zona, e lì ci siamo conosciute e abbiamo deciso di lavorare insieme. Interrogandomi e investigando sul tema della sessualità – come metafora della natura ibrida di Rio – ho scoperto che questo mondo si muove su uno sfondo di grande ostilità. Il Brasile è il paese in cui vengono uccisi il maggior numero di transessuali, gay e lesbiche – solo in base ai numeri ufficiali, quindi immaginiamo quante uccisioni “non ufficiali” ci sono. Il Brasile, però, allo stesso tempo, è il paese che consuma più pornografia transessuale in assoluto. Quindi il rapporto di attrazione e repulsione era molto interessante.

La figura del transessuale è profondamente radicata nell’immaginario brasiliano.

Sì, è l’incarnazione stessa del carnevale: molto spesso i travestiti vengono usati nei carrozzoni, come dive. Perciò sono rimasta stupita del fatto che una simile cultura avesse anche così tanta aggressività nei confronti delle diversità. Il film era già in lavorazione quando ho deciso di inserire, integrandola, questa dimensione politica e sociale.

Perché la parola “barocco” nel titolo?

L’ho scelta perché il barocco è l’arte del sacro, e poi perché è stato un momento nella storia del Brasile in cui si è imposto il colonialismo. Proprio durante il colonialismo il barocco è arrivato dall’Europa, dando vita alla versione brasiliana, che è molto più vertiginosa, molto più ibrida, molto più audace. I primi artisti del barocco brasiliano – è importante sottolinearlo – nacquero dalla fusione di culture, essendo figli di bianchi e di schiavi. Nelle loro mani, la tecnica dell’arte portoghese divenne qualcosa di completamente diverso. L’uomo barocco, per me, in quanto greca, era un qualcosa di estremamente tragico, perché la sua mentalità, la sua visione del mondo era divisa tra carne e spirito: una dualità che è nel cuore del mio film.

Infatti tu mostri la carne, cioè i corpi, ma, nella narrazione, ricorri a una specie di flusso di coscienza fatto di parole che sembrano quasi perdersi nella notte.

Sono di Clarice Lispector, un’importante autrice brasiliana di origine ucraina che usava la lingua in una maniera molto particolare, strana anche per i madrelingua portoghesi. Inizialmente avevo preso in considerazione l’ipotesi di lavorare su Le Baccanti di Euripide e Le metamorfosi di Ovidio, ma poi ho letto Água Viva: la cosa giusta al momento giusto. C’è poi un altro testo che è alla base del film, anche se non viene citato direttamente: Manifesto Antropofágico. Lì il poeta Oswald de Andrade riflette sulla cultura brasiliana attraverso i rituali di una tribù primitiva che mangia i propri nemici per acquisirne i poteri. Lui diceva – e sintetizzo molto – che la cosa che il Brasile sa fare meglio è divorare le influenze esterne e farle venire fuori come qualcosa di nuovo. Ed è vero: il barocco era esattamente questo.

E’ anche l’andamento del film: veniamo risucchiati nella città e poi risputati fuori insieme ai vari personaggi che incontriamo…

Iniziamo dalla natura che circonda Rio. Poi la città. Poi il carnevale che diventa protesta politica, perché non ho potuto ignorare il fatto che, mentre investigavo il corpo “intimo”, quello “sociale” veniva stuprato. Poco prima delle Olimpiadi, infatti, Dilma Rousseff era stata cacciata in maniera ingiustificabile e, più o meno nello stesso periodo, una ragazza di sedici anni era stata violentata in una favela da trenta uomini: queste cose si sono mischiate e le proteste hanno avuto inizio quando il carnevale era ancora sui corpi sudati della gente. Le manifestazioni che ho utilizzato nel film sono forse le primissime, quando Michel Temer, appena diventato presidente, abolì il ministero della Cultura, innescando reazioni a catena, tra cui l’occupazione di Palácio Capanema. Anche quando protestano, i brasiliani sono sempre creativi e artistici: molto spesso il tutto finiva in una grande samba all’aperto.

Metamorfosi fisica e cambiamento politico, dunque.

La volontà di cambiare il proprio corpo – sia essa effimera o più profonda e radicale – e quella, da parte dei cittadini, di cambiare il panorama politico sono entrambe richieste democratiche. Sono richieste che vanno rispettate perché si pongono in opposizione all’idea che possa esistere un destino antropologico, un destino imposto. Io le metto sullo stesso livello.

A proposito del tuo cinema qualcuno ha usato il termine “psicogeografia”. Ti ci ritrovi?

Sono un po’ scettica nei confronti di etichette e definizioni, perché non cerco mai di fare della teoria. Voglio che i miei film siano delle esperienze: delle esperienze cinematografiche.

Contrariamente a un geografo, tu lavori sul piano dei sensi.

Faccio certamente delle cartografie. Ma delle cartografie di desideri, di memorie. Quindi, psicogeografia? E’ un bel termine, però non lo userei. A seconda delle definizioni che usi, finisci con l’essere ricondotto a un determinato modo di vedere il mondo. E l’unico modo in cui io percepisco il mondo è filmandolo.

 

 

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