Thessaloniki Documentary Festival 2018 – “Una storia di padri e figli”: Intervista a Talal Derki

di Massimo Lechi.

Tra i registi che hanno presentato i loro lavori al ventesimo Thessaloniki Documentary Festival, il siriano Talal Derki è forse quello che con più forza è riuscito a scuotere il pubblico. Il suo Of Fathers and Sons, già trionfatore all’ultimo Sundance Film Festival, inserito dai selezionatori greci nell’ampia sezione Kaleidoscope (in compagnia di maestri come Claude Lanzmann e Abel Ferrara), ha vinto infatti il Peter Wintonick Audience Award nella serata conclusiva, pochi giorni dopo il battesimo  nella sala rossa del cinema Olympion.

Quarant’anni, barba folta e dialettica appassionante, Derki in Grecia è di casa: prima di diventare un apprezzato cameramen per CNN e Reuters ha studiato alla Stavrako High Institute of Cinematographic Art and Television di Atene, diplomandosi nel 2003. Ora vive in esilio a Berlino, lontano dalla Siria in macerie da lui esemplarmente – e dolorosamente – raccontata in Return to Homs (2013).

Se quel primo film si concentrava su un gruppo di giovani e sulle loro speranze infrante dalle bombe, in una Homs ridotta a città fantasma, Of Fathers and Sons esplora l’altra faccia – altrettanto oscura e tragica – del conflitto siriano, ovvero l’universo dei militanti jihadisti, attraverso la storia di un padre e dei suoi figli. Abu Osama, questo il nome dell’imponente patriarca al centro del documentario, è un miliziano di Al-Nusra tutto d’un pezzo. Dal suo villaggio nella Siria settentrionale combatte strenuamente per costruire, pallottola dopo pallottola, cadavere dopo cadavere, il Califfato. Con lui, in questa sorta di dimensione parallela dove solo i telefonini e le mine antiuomo sembrano ricondurre lo spettatore all’oggi, i suoi amatissimi figli maschi, per i quali però è già stato deciso un destino da martiri.

Fingendosi un simpatizzante del Califfato, e rischiando dunque doppiamente la pelle, Derki ha vissuto oltre due anni con loro, filmandoli tanto sul campo di battaglia quanto nell’intimità della vita quotidiana, tra esercitazioni e giochi, deliranti proclami e momenti di disperazione e tenerezza. Altro prezioso tassello nel mosaico cinematografico delle guerre in Medio Oriente, Of Fathers and Sons supera i confini – e i limiti – del reportage bellico e del documentario descrittivo e si impone come un’indimenticabile immersione nell’orrore e nella follia del presente.

 Of Fathers and Sons è stato un viaggio estremamente complesso e rischioso, in cui da subito hai messo a repentaglio la tua vita. Come e quando hai deciso di intraprenderlo?

 Stavo girando Return to Homs, un film su come la rivoluzione siriana è diventata un conflitto militare ed è finita in una catastrofe. Verso la fine della lavorazione, nell’ultimo blocco, ho avuto modo di assistere per la prima volta alla comparsa e all’insorgere del movimento jihadista. In quella fase molti nel paese cominciarono a credere, come sostenevano gli sceicchi, che la nostra fosse una guerra religiosa, per la distruzione dei sunniti. Una volta trasferitomi a Berlino, avevo la sensazione che il mio film non fosse finito, o almeno che fosse finito solo in quanto storia della città e dei personaggi. Stavo lì seduto a pensare, confuso per via della situazione: io ero fuori, ma nel mio paese questa gente stava crescendo… Allora sono andato dal mio produttore spiegandogli cosa volevo, ho preso la camera e ho iniziato a fare ricerche. Finché non ho trovato il personaggio.

Come sei arrivato a scegliere un’angolazione così particolare? Al centro del tuo film non c’è solo la guerra, ma la preparazione alla guerra di piccoli martiri da parte del loro padre jihadista.

In passato avevo visto genitori allenare i loro figli alla guerra, avevo visto bambini uccisi in combattimento – cosa non molto frequente, ma che comunque accade. Questo mi ha portato all’eterno rapporto tra padri e figli, una questione centrale nel Medio Oriente, dove tutte le famiglie sono costruite sull’autorità paterna – come in Padre padrone dei fratelli Taviani. E mi ha portato a immergermi in questa realtà, e a ricercare il momento in cui si diventa ciò che si è. Io non ricordo abbastanza della mia infanzia per capire come mio padre si sia comportato con me al fine di rendermi una persona che vuole la pace e che non può commettere un atto violento. Ma è importante comprendere quanto quella della violenza, dell’odio e della religione sia un’eredità che viene trasmessa di generazione in generazione.

Il tuo è un film “dentro” il jihadismo.

E’ importante vedere questa parte di società dal di dentro. Io credo – perché no? – che il cinema debba cercare di mantenere il proprio punto di vista all’interno della società… Anche se “nemici della nazione”, il cinema deve mostrarli come sono nel loro mondo.

Il documentario ti permette di farlo.

Il documentario, con una piccola camera e un piccolo team, me lo permette. Posso scomparire, modificare le mie sembianze e il modo in cui parlo, essere più simile a quello che voglio raccontare. Posso sentirmi più a mio agio, e filmare ogni volta che voglio e per quanto voglio.

Come hai trovato Abu Osama?

Grazie ai contatti del mio primo film. Per le riprese di Return to Homs ho formato molti cameraman, anche provenienti dalle file degli attivisti – io filmavo solo la prima linea. Ho chiesto a tutte queste persone di aprire gli occhi: avevo bisogno di bambini allenati a essere jihadisti e il cui padre fosse radicalizzato. Oltre ad Abu Osama, abbiamo trovato anche un suo amico, oggi tra i capi di Al-Qaeda, che li ha convinti a farsi filmare.

Ma in che veste ti sei presentato a loro? E in che modo hai giustificato le riprese?

Gli ho detto che ero un simpatizzante, che volevo fare della propaganda sulla jihad… Non ho usato proprio la parola “propaganda”, ma il senso era quello.

Hai finito col trascorrere con loro due anni.

Due e mezzo. Io personalmente sono rimasto due anni, ma il film ne copre due e mezzo. Abbiamo trecento-trecentotrenta giorni di riprese complessivi.

Quindi non sei rimasto lì per tutto il tempo?

Facevo avanti indietro, tornavo ogni tanto dalla mia famiglia. A volte era così difficile questo entrare e uscire…

Eri all’inferno. C’è una scena terribile in cui Abu Osama spara con un fucile e tu sei lì a fianco a lui, con un’aria esausta, quasi devastata…

E’ la mia ultima apparizione nel film: al montaggio ho pensato che lì dovesse finire l’introduzione, lasciando spazio alla loro storia. In quella scena lo intervisto dopo aver corso insieme a lui per due chilometri sotto il sole. L’area è aperta al nemico, ci sono molti cecchini, ma lui vuole fare il suo dovere di tiratore. Si mette a parlare in maniera molto intima di quando venne arrestato nel 2008, di come, quando lo portarono via di fronte al suo villaggio, lui sentì l’odore di suo figlio Osama che aveva appena quattro anni, di come sentiva che quell’odore venisse da dentro di lui… E in quel momento – trac – spara e uccide. Non so cosa succederebbe o come reagiresti se adesso, mentre mi stai intervistando, io uccidessi qualcuno. Però, voglio dire, anche se il momento è inumano, lo si riprende sempre con occhio umano. Perché questo è ciò che siamo, il modo in cui ci presentiamo.

Nel film mostri i due piani della vita di questi jihadisti: l’intimità e le fasi dell’addestramento e della guerriglia. Eppure non si percepisce la differenza, non c’è davvero uno stacco. La follia integralista entra anche nei più piccoli gesti quotidiani o nei momenti di affetto. Abu Osama, in ogni istante, è il patriarca che vuol mandare a morte i suoi figli.

Perché ha la fede. Non è un impostore: crede in quello che fa. Quelli come lui inculcano questa mentalità nei figli perché vogliono formare una generazione completamente cieca, una generazione di soldati che non si pongono domande – come al tempo dei nazisti o in Corea del Nord. Sono le armi più potenti, secondo loro. Però allo stesso tempo li amano, ed è questo il paradosso. Un paradosso molto cinematografico: un padre ama suo figlio ma vuole mandarlo a combattere molto presto, anche se ancora non è pronto… E poi c’è un’altra cosa: Abu Osama non ha mai smesso per un secondo di pensare al suo Califfato.

Questa è una cosa che colpisce. Ci sono molti momenti in cui la vita lo sottopone a prove tremende, il destino della guerra è chiaramente segnato, eppure la sua fede non vacilla. Tu sei lì con lui a riprenderlo e mostrare come reagisce, e la sua fede è sempre forte.

E’ sempre forte, ma comunque lui viene sconfitto dopo aver perso il piede. Quella per me è la fine del progetto di cui era così orgoglioso. Lo vediamo perso, mentre urla e si dispera, senza più fiducia in se stesso. E’ il momento in cui, da filmmaker, mostro – senza dirlo direttamente – che il suo progetto non si concretizzerà mai.

Lui però ci crede fino alla fine.

Ci crede, ma il Califfato non si affermerà mai. Perché lui è troppo debole… Tutti gli esseri umani sono deboli.

Da quando sei tornato dalla Siria hai più avuto loro notizie? Sai cosa gli è successo?

Ho visto che l’area è stata bombardata e viene ancora di tanto in tanto bombardata – tutta la zona, non solo il loro villaggio… Non ho informazioni da più di un anno.

Pensi che Abu Osama sappia quello che hai fatto con il tuo film?

Di sicuro non posso più tornare lì, e pure la mia vita in Europa non è molto facile da gestire. Perciò… (pausa) Non so che dire… Io faccio i miei cut. Anche quando ami i tuoi personaggi, loro spesso non sono soddisfatti del montaggio. Figuriamoci quando dietro a un film c’è una storia e tutto un rumore come questi! Credo che lui sarebbe scioccato. Ma non voglio pensarci troppo. Non conosco il futuro, davvero. So che sopravvivrò, ho questa sensazione…

L’avevi anche mentre giravi?

Sapevo che sarei sopravvissuto.

Nel documentario tutti vivono sotto una pressione insostenibile. A cominciare da te, dall’uomo dietro la macchina da presa. Hai mai pensato di scappare?

Sempre, costantemente. A ogni cambio di location, ogni volta che succedeva qualcosa, mandavo un messaggio al mio assistente alla regia – che è mia moglie – dicendo che volevo andarmene. Di nuovo a casa, mi ripetevo che sarebbe stato impossibile andare ancora in quell’inferno… Ma poi guardavo il girato e decidevo che dovevo tornare.

 

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