di Aldo Viganò.
George Clooney è un regista per bene, ma dallo stile molto convenzionale. Un “metteur en scène” che s’innamora dei soggetti più che delle immagini atte a farli vivere sullo schermo. Un cineasta, cioè, molto più simile a Stanley Kramer o a Sidney Lumet che un autore della stoffa di Billy Wilder o dei fratelli Coen, i quali pur con “Suburbicon” hanno qualcosa a che fare, avendo questi concesso a Clooney l’uso di una loro vecchia sceneggiatura dismessa e quello avendo almeno ispirato agli autori del film l’idea dell’uxoricidio con annesso personaggio dell’ispettore della società di assicurazione che dovrebbe liquidare l’avvenuta e “accidentale” perdita famigliare.
Come dimostrano i suoi film precedenti (basti citare “Good Night and Good Luck” o “Le idi di marzo”), però, Clooney si trova molto più a proprio agio quando mette in scena un soggetto dal forte impegno sociale, piuttosto che una “black comedy” dal tono sarcastico e dalle graffianti finalità narrative. E lo ribadisce ora in questa sua sesta regia cinematografica, nella quale ciò che gli riesce meglio è proprio la descrizione di questa linda “new town” degli anni Cinquanta, abitata da bianchi borghesi timorosi di Dio, pronti comunque a scatenare tutto il loro latente razzismo quando in una delle nuove casette di Suburbicon (questo il nome della cittadina) viene ad abitare una pur gentile famigliola (padre, madre e ragazzo) dalla pelle nera. È allora, infatti, che i locali fanno tutto il possibile per mandarli via. Erigono una staccionata per isolarli dal resto del mondo. Organizzano turni di giorno e di notte per disturbare con tamburi e urla la loro quiete domestica. Infine, ricorrono anche alla violenza fisica di massa.
Tutto questo, Clooney sa raccontarlo con immagini insieme sintetiche e percorse da un autentico sdegno civile che lo induce, però, quasi a dimenticare che per i Coen questo episodio d’intolleranza razzista riguardava solo un “sub-plot”, perché al centro della loro sceneggiatura stava pur sempre la sarcastica storia dei vicini di casa della assediata famiglia di colore.
Sono loro infatti che, indifferenti a quanto sta accadendo a pochi metri di distanza, portano avanti, sotto lo sguardo stupefatto del rampollo di famiglia, il loro piano criminale consistente nell’ingaggio di due scalcinati malviventi che, irrompendo come ladri nella linda casetta dei Lodge, uccidono la moglie paralitica del padrone di casa, permettendo così a questo (Matt Damon) di continuare alla luce del sole la tresca con la cognata (sorella della legittima consorte: doppio ruolo per Julianne Moore) e di puntare alla ricca assicurazione sottoscritta sulla vita della madre i suo figlio.
Trattandosi di una famiglia borghese, egoista quanto stupida, è ovvio che qualcosa non funzioni secondo i piani. E tutto finisca tra ricatti e schizzi di sangue. Ma l’intento sulla carta era chiaro ed esplicito. Intrecciare la disumanità dei singoli e di una collettività “per bene” con la pratica della violenza pubblica e privata di una comunità autoreferenziale, intollerante e pronta a uccidere per salvaguardare i propri privilegi di classe e di razza. E la sceneggiatura dei Coen suggeriva con prepotenza al film di imboccare proprio questa via che presupponeva, non solo come corollario, l’adozione di uno sguardo sugli individui e sull’umanità intera molto più cinico e spietato di quello che può portare sullo schermo un regista “per bene” quale è George Clooney.
Richiedeva cioè un autore della pasta di Billy Wilder o degli stessi Coen, mentre invece Clooney, nonostante tutta la buona volontà ostentata dai suoi interpreti, ha molta difficoltà a conciliare il plot secondario con il plot principale e accade così che il suo “Suburbicon” sbandi di continuo, non riuscendo a trovare un tono unificante, capace di andare al di là della pur edificante amicizia che i due adolescenti, uno rampollo dei bianco assassino e l’altro dei neri tenaci a conservare la propria casa, stringono nel nome dello sport nazionale (il baseball) nella sequenza finale.
Peccato, perché pur nel suo schematismo, a tratti sin troppo didascalico, il film aveva la potenzialità di riuscire meglio. Se più duro e graffiante. Con risultati anche più cattivi e divertenti. Ma, forse, sarebbe stato chiedere troppo al talento dell’«onesto» Clooney.
SUBURBICON
(USA, 2017) Regia: George Clooney – sceneggiatura: Joel e Ethan Coen, George Clooney, Grant Heslov – fotografia: Robert Elswit – musica: Alexandre Desplat – scenografia: James D. Bissell – costumi: Jenny Eagan. Interpreti: Matt Damon (Gardner Lodge), Julianne Moore (Rose / Margaret), Oscar Isaac (Bud Cooper), Noah Jupe (Nicky Lodge), Glenn Fleshler (Ira Sloan), Megan Conley (June), Jack Conley (Hightower), Gary Basaraba (zio Mitch), Karimah Westbrook (sig.ra Mayers), Leith Burke (sig. Mayers), Tony Espinosa (Andy Mayers). Distribuzione: 01 Distribution – durata: un’ora e 47 minuti