di Renato Venturelli.
Il cinema sudcoreano continua ad attraversare una fase di grande libertà creativa, e con questo “Taeksi Woonjunsa – A Taxi Driver” affronta uno dei momenti più tragici della recente storia coreana attraverso un racconto estremamente mosso, mescolando azione e commedia, impegno e spettacolo. Il risultato è un film di travolgente successo popolare, candidato all’Oscar per il miglior film straniero, interpretato da uno dei volti più famosi del nuovo cinema sudcoreano: Song Kang-ho, protagonista di alcuni successi arrivati anche sul mercato italiano, come “Mr.Vendetta”, “Memories of Murder”, “Snowpiercer”, “Il buono, il matto, il cattivo”.
In questo caso interpreta un tassista qualunque, un poveraccio vedovo, con una figlia da allevare e un taxi scassatissimo da cui far uscire ogni giorno di che sopravvivere nella Corea del 1980. Quando una protesta di piazza gli blocca la strada, la sua reazione contro studenti e manifestanti è ispirata al più tradizionale qualunquismo. Ma quando sente dire che uno straniero offre una cifra enorme per essere trasportato da Seul alla città di Gwangju, non ha esitazioni: si precipita davanti all’albergo, soffia il cliente al collega, è disposto a tutto pur di incassare quella cifra.
La vicenda che va ad affontare è però destinata a cambiare la sua vita. Il cliente è infatti un reporter tedesco diretto a Gwangju perché ha sentito dire che è in atto una terribile repressione militare sconosciuta ai media internazionali. Giunti sul posto, i due troveranno una situazione che va al di là di qualsiasi supposizione: la città è isolata da posti di blocco, manifestanti e cittadini scesi in piazza a protestare contro la dittatura di Chun Doo-hwan vengono braccati per le strade, massacrati dall’esercito, inseguiti da militari in borghese che vanno a compiere vere e proprie esecuzioni.
Il “buddy movie” sprofonda così nel film di denuncia, senza mai abbandonare del tutto i risvolti da commedia, ma raccontando con progressione incalzante la discesa agli inferi dei suoi due protagonisti, la progressiva presa di coscienza di un coerano qualunque e di un reporter fino ad allora distaccato e un po’ cinico.
Alla fine ci saranno migliaia di vittime, ma nonostante la tragica realtà della vicenda il film non abbandona il suo taglio popolare. Al momento della fuga da Gwangju verso Seul, dove il giornalista tedesco deve prendere l’aereo che gli permetterà di mostrare a tutto il mondo filmati e fotografie dei massacri governativi, il tassista e il reporter vengono inseguiti per le strade fuori città dai mezzi militari decisi a bloccarli. Ma come in un western arrivano i taxi di Gwangju a porsi tra inseguitori e inseguiti, sempre guidando a gran velocità su e giù per le strade di campagna, in un frenetico inseguimento che usa lo spettacolo avventuroso ed action per trasmettere il senso di partecipazione popolare, il ricompattamento e la militanza “dal basso” contro la ferocia della dittatura. Non solo, insomma, il punto di vista adottato è quello di un umile tassista estraneo a qualsiasi coinvolgimento politico, ma è tutta la vicenda ad essere raccontata dal punto di vista delle strade, delle piazze, delle persone qualunque, e del modo in cui il pubblico popolare è abituato a veder espresse dal cinema le sue emozioni.
L’intento rievocativo dell’episodio storico ha ovviamente un suo peso condizionante nell’economia del film, ma Hoon Jang (ex-assistente di Kim Ki-duk, poi regista di “Rough Cut”, “Secret Reunion”, “The Front Line”) riesce a mantenere una certa libertà espressiva proprio a partire da quest’ottica popolare, nonostante l’evidente ideologia populista che la sostiene. E con immagini finali in cui il vero giornalista tedesco Jurgen Hinzpeter cerca fino all’ultimo (è morto nel 2016) di rintracciare il tassista coreano che gli permise di riprendere quei massacri e di mostrarli a tutto il mondo, ma che per decenni non aveva mai voluto rivelarsi.