di Aldo Viganò.
Raccontare con chiarezza e con forza espositiva una storia: sia questa frutto della fantasia (come “Il buio si avvicina” o “Strange days”) o ispirata a fatti realmente accaduti (come “Zero Dark Thirty” o questo “Detroit”). Confidare senza remore intellettualistiche o divagazioni ideologiche nell’autonomia espressiva del linguaggio cinematografico. Puntare con decisione su quelle che dai tempi di Griffith sono le caratteristiche essenziali della Settima Arte: ritmo ed evidenza delle immagini, articolazione del montaggio, coinvolgimento emotivo dello spettatore in una narrazione che solo in apparenza sembra farsi da sola. Consegnare così al grande schermo (i film di Kathlyn Bigelow non possono essere visti né alla tv né tanto meno sui cellulari) una realtà che è il frutto di una precisa scelta espressiva, fatta di consapevoli determinazioni delle inquadrature e delle distanze della cinepresa dai protagonisti della rappresentazione, ma fatta anche di un sapiente uso della musica e di una personale capacità di dirigere gli attori (dopo un casting oculato) nel contesto di un’azione che calibra sapientemente lo sfondo “infernale” con l’attenzione per chi si trova a viverci all’interno: vittima o carnefice che sia.
Questa è l’arte del racconto per immagini secondo Kathryn Bigelow. E questo è ciò che fa di “Detroit” un film che finalmente ci riconcilia con il cinema visto nel corso di una stagione per ora molto fiacca.
“Detroit” è un film capace di essere contemporaneamente classico e moderno, nel quale la narrazione organizzata con sapienza di un fatto storico realmente accaduto (le rivolte degli afro-americani della più grande città del Michigan nel luglio 1967) diventa specchio di una situazione esplosiva che brucia ancora oggi sotto la cenere del razzismo mai sopito negli Usa.
La sessantaseienne Bigelow costruisce il suo racconto in tre atti. Allo scoppio della rivolta, seguita da incendi e saccheggi, causata dalla maldestra irruzione della polizia in un locale privo di licenza per gli alcolici, fa seguito una progressiva concentrazione dell’azione nel motel Algiers, dove lo stupido sparare di una pistola giocattolo provoca la violenta reazione di tre poliziotti di Detroit (guidati da Will Poulter) che, sotto lo sguardo attonito e impotente di una guardia giurata di colore (John Boydega), segregano per ore i sospettati (un pugno di neri e due ragazze bianche), sottoponendoli a violenze inaudite (torture fisiche e psicologiche, omicidi simulati o messi in atto), dalle quali le vittime escono distrutte sanguinanti e umiliate (il ricordo di Bolzaneto è per gli italiani inevitabile), per essere poi anche beffate dal seguente processo (terzo atto della storia) che assolve tutti i colpevoli come i loro silenti complici della Guardia Nazionale ivi mandata dal governo di Lyndon B. Johnson con l’intento di porre fine a una rivolta che si svolse pochi mesi prima dell’assassinio di Martin Luther King.
La Bigelow racconta i fatti (alcuni dei quali liberamente ricostruiti dal suo sceneggiatore Mark Boal a causa della reticenza degli atti processuali) e li rappresenta sullo schermo con stile insieme oggettivo ed emotivamente partecipato. Nessun esplicito giudizio o dichiarato moralismo. L’azione innanzitutto. Ed è solo da questa che nasce la distinzione tra il bene e il male. Anche i carnefici hanno le loro (pur aberranti) ragioni. Restano degli esseri umani pur essendo senza ombra di dubbio razzisti, maschilisti e assassini. Come umane sono le loro vittime: non perfette ma spaventate da chi indossa la divisa, pestate a sangue da quei rappresentanti del potere, un paio anche uccise alle spalle con colpi di armi da fuoco.
Questa è la vita.
Soprattutto, questo è il cinema della Bigelow.
Adrenalinico, ma intimamente dolente. Apparentemente neutrale, ma capace sempre di distinguere con chiarezza ciò che appartiene al mondo del giusto o dall’ingiusto.
Un cinema che non rinuncia mai alla propria essenza di linguaggio atto a riflettere sulla realtà. Senza pregiudizi o schematismi.
Un cinema da vedere e rivedere, senza esserne mai sazio.
DETROIT
(Detroit, USA 2017) Regia: Kathryn Bigelow – sceneggiatura: Mark Boal -fotografia: Barry Ackroyd – scenografia: Jeremy Hidle – costumi: Francine Jamison-Tanchuck – montaggio: William Goldenberg e Harry Yoon. Interpreti: John Boydega (Dismukes), Will Poulter (Krauss), Algee Smith (Larry), Jacob Latimore (Fred), Jason Mitchell (Carl), Hannah Murray (Julie), Jack Reynor (Demens), Kaitlyn Dever (Karen), Ben O’Toole (Flynn), John Krasinski (avvocato Auerbach), Anthony Mackie (Greene), Nathan Davis Jr (Aubrey). Distribuzione: Eagle Pictures – durata: due ore e 23 minuti