Il Cinema Ritrovato 2017: il paradiso dei cinefili

di Antonella Pina.

Il Cinema Ritrovato, alla sua XXXI edizione, non ha smesso di stupirci con un programma incredibilmente ricco di eventi. “Anche tu al Cinema Ritrovato? Cosa ti perderai oggi?” Questa è la battuta che girava nelle sale, dove si doveva arrivare con un certo anticipo perché i posti a sedere andavano spesso esauriti. In effetti, come sempre, abbiamo dovuto fare scelte dolorose e trascurare intere sezioni: La macchina del tempo e La macchina dello spazio e quindi i film del Progetto Keaton, di Colette e il cinema, del Noir iraniano, del Cinema storico giapponese degli anni bui e del Cinema messicano dell’epoca d’oro. E altre mirabilie.

ll paradiso dei cinefili ha, ancora una volta, catturato la nostra attenzione. Da questa sezione ricca di cose preziose, estraiamo alcune perle.

Come potevamo resistere a Bring Me the Head of Alfredo Garcia (Voglio la testa di Garcia), il film di Sam Peckinpah del 1974 restaurato da Arrow Films? Un incredibile melodramma noir che ha la stessa intensità drammatica de Il mucchio selvaggio, la stessa necessaria e inevitabile violenza, lo stesso disincanto e impossibilità ad amare, ma con un elemento nuovo e sorprendente che ci ha ricordato quanto Tarantino debba a Peckinpah: un’ironia consapevole ma non esibita capace di consentire a Warren Oates di intraprendere un viaggio di andata e ritorno nel deserto messicano per dissotterrare Garcia, perderne la testa che altri hanno provveduto a tagliare, ritrovarla dentro un sacco, recuperarla dopo aver assistito rassegnato ad una carneficina, cercare di proteggerla con il ghiaccio dalle mosche e dal caldo, trasferirla in un più elegante cesto di vimini per consegnarla al committente, ucciderlo, riprendersi Garcia: “Come on Al, let’s go home” e finire trivellato di proiettili. Qualcuno lo ha definito un capolavoro assoluto. Umilmente ci associamo. E poi:

John Huston con due grandi film: The Asphalt Jungle (Giungla d’asfalto) del 1950, restaurato da Criterion e Warner Bros. Per alcuni la madre di tutte le pellicole al cui centro ci sia una rapina, eppure “un crime film unico perché le inquadrature iniziali ricordano il cinema neorealista di Rossellini”, come ha osservato Eddie Muller, presidente della Film Noir Foundation che lo ha introdotto. E’ il film più amato da Jean -Pierre Melville. Una storia in cui i fuorilegge sono criminali ma solo per mestiere, tutti presentano un lato umano: sono simpatici, hanno una famiglia a cui provvedere, la casa dell’infanzia a cui tornare, un altrove ancora possibile. Come accade a molti capolavori, Giungla d’asfalto era in anticipo sui suoi tempi e quando il produttore, Arthur Hornblow Jr., lo vide concluso ebbe a dire: “Non attraverserei neppure la strada per andare a vedere un film come questo.” Wise Blood (La saggezza nel sangue) del 1979, presentato da Michael Fitzgerald, sceneggiatore e produttore del film. Fitzgerald ha raccontato il suo incontro con Huston, il regista che lui, giovane sceneggiatore, ammirava di più. Andò a trovarlo in Messico, a Puerto Vallarta, con il libro di Flannery O’Connor e la sceneggiatura che ne aveva tratto. Huston lo richiamò tre giorni dopo dichiarandosi molto interessato. Non restava che trovare il denaro. Due anni dopo Fitzgerald tornò da Huston con 800.000 dollari e le riprese ebbero inizio. Dovevano cercare di risparmiare ogni centesimo, la moglie e la madre del produttore/sceneggiatore cucivano gli abiti e preparavamo le coreografie. Non fu un percorso semplice ma alla fine il risultato fu sorprendente. La saggezza nel sangue è un film complesso, provocatorio e crudele, con un lato comico che lo rende decisamente inquietante. Un grande Brad Dourif interpreta il giovane reduce Motes –  forse torna dalla guerra e forse si tratta della guerra del Vietnam – ossessionato e tormentato dai predicatori, disposto a diventare lui stesso un predicatore pur di svelare la menzogna di Cristo, smascherare i falsi predicatori e fondare una Chiesa finalmente senza Cristo: “The world is an empty place”.

Break Up – L’uomo dei cinque palloni di Marco Ferreri girato tra mille vicissitudini tra il 1963 e il 1967, restaurato dalla Cineteca di Bologna e dal Museo Nazionale del Cinema di Torino. Un film che ha avuto negli anni pochi spettatori, perché sostanzialmente non distribuito, ma almeno tre titoli, il più impegnativo, Break Up, pare sia stato suggerito dal produttore Ponti nella speranza di ripetere il succeso avuto con Blow-up di Antonioni – anche quest’ultimo film, restaurato dalla Cineteca di Bologna, Istituto Luce – Cinecittà e Criteron, in collaborazione con la Warner Bros, è stato presentato all’interno della rassegna – L’uomo dei cinque palloni, o palloncini, proiettato sul grande schermo di piazza Maggiore, è apparso sorprendente.  Mastroianni, con quella sua magnifica aria sorniona, dà vita a Mario, un personaggio complesso e nuovo per gli anni ’60: un uomo moderno, un borghese senza problemi economici che si circonda di oggetti di pregio, con una giovane e disinibita fidanzata disposta a passare il weekend con lui in attesa del matrimonio ormai prossimo. Un uomo annoiato alla ricerca di qualcosa, forse di una ragione concreta per cui vivere. Sembra il solito dramma dell’ individuo tormentato dal non senso della vita che si pone alcune domande fondamentali. E in effetti il tema della storia sembra essere proprio questo, ma si tratta di un film di Ferreri e la madre di tutte le domande non poteva non essere particolarmente inquietante: quanta aria è possibile insufflare in un palloncino prima che questo scoppi? Qual’è l’attimo in cui occorre fermarsi, immediatamente prima che sia troppo tardi? Il problema è di difficile soluzione, quasi come tentare di dare un senso alla vita. Le molte persone interrogate non sanno rispondere e sopratutto non comprendono l’importanza della domanda, nonostante Mario, prima di gettarsi dalla finestra, provi a suggerire di non fermarsi alla superficie del problema e ad andare oltre, a “superare il palloncino”.

La verité di Henri-Gerge Clouzot del 1960 restaurato da Sony Columbia. Una storia che Clouzot trasse da un fatto di cronaca accaduto a Draguignan: il processo a una giovane donna, Clotilde Seggiaro, accusata di omicidio. Il regista era interessato al tema della verità, a quanto sia difficile ottenerla, soprattutto in un’aula di tribunale. Un giudice può e deve esprimersi circa l’omicida e l’eventuale premeditazione, ma qual’è lo stato d’animo, quali sono le emozioni che stanno dietro un delitto? Un argomento delicato, reso particolarmente interessante dalla presenza di Brigitte Bardot, la vera ragione per cui il produttore, Raoul Lévy, propose a Clouzot di girare il film. La Bardot fino a quel momento era confinata in ruoli che non ne esaltavano le capacità recitative e Clouzot vuole provare ad affidargliene uno impegnativo. L’esperimento riesce, Brigitte dimostra di essere una brava attrice anche se le sue “altre” qualità prendono spesso il sopravvento. Impossibile non ricordare la scena in cui, nuda sotto le lenzuala, distesa sul ventre, balla il cha cha cha muovendo i glutei: indimenticabile!  La verité ebbe un grande successo di pubblico, sicuramente perché è un bel film ma forse anche perché la Bardot, che nella storia muore suicida, tentò realmente il suicidio poche settimane prima dell’uscita della pellicola nelle sale.

Tralasciamo altre perle come Johnny Guitar di Nicholas Ray, La Fête à Henriette di Julien Duvivier, Belle de jour di Luis Buñuel…..e concludiamo con La corazzata Potëmkin.

Bronenosec Potëmkin (La corazzata Potëmkin) di Sergej Ėjzenštejn del 1925, è stato proiettato sul grande schermo di Piazza Maggiore, accompagnato dalle musiche originali di Edmund Meisel eseguite dalla Filarmonica del Teatro Comunale di Bologna e presentato da Naum Klejman, creatore e direttore del Centro Ėjzenštejn di Mosca, rimosso dall’incarico dal governo Putin. Il film, che ha conservato tutta la sua forza rivoluzionaria, ci ricorda “come accanto alla Libertà e all’Uguaglianza dell’umanità sia necessaria la Fratellanza, la rinuncia alla violenza, il riconoscimento del legame che lega tutti noi sulla Terra”, per usare le parole di Klejman. Mentre la prua della corazzata avanzava gigantesca e inesorabile verso il pubblico determinata a travolgere ogni ingiustizia, accompagnata da una standing ovation, non è stato possibile non sorridere ripensando alla storica battuta del ragionier Fantozzi, grazie alla quale tutta l’Italia ha conosciuto, anche se non necessariamente apprezzato, lo straordinario film di Ėjzenštejn. Ricordiamo con affetto il  grande Paolo Villaggio.

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